AGI – Il caffè con ghiaccio? La sua versione più popolare in Italia è nata a Lecce e poi si è diffusa nel resto della Penisola. In breve, consiste in un bicchiere di vetro colmo di cubetti, espresso e latte di mandorla mischiati insieme. La ricetta di rigore vuole: 1 espresso corto 20/22 ml, 1 shot di latte di mandorla, ghiaccio quanto basta fino a colmare l’intero bicchiere.
Poi c’è la variante “con crema”, che presuppone due espressi uniti in un mixer insieme a due cubetti di ghiaccio. Una volta shakerati, “tenere da parte la crema e preparare un altro espresso”. Poi, in un bicchiere di vetro “versare la crema, lo shot di espresso, il latte di mandorla e ghiaccio fino a riempimento”.
Sono i consigli del Gambero Rosso che in un servizio a carattere storico precisa che “la combinazione di acqua e ghiaccio non è nata in Puglia. Anzi, le prime apparizioni di questo mix risalgono a secoli fa in paesi molto lontani dal Mediterraneo”. Tuttavia, questa bevanda, forse tra le più consumate d’estate, ancor oggi resta “fortemente ancorata alla terra d’origine”.
Ad ogni modo la tradizione del caffè con ghiaccio si basa su “pochi scritti e pressoché nessuna testimonianza”, sottolinea il mensile gourmet. E una delle tesi più accreditate vuole che “siano stati i francesi i primi a servire del caffè freddo”, il Mazagran, chiamato così dal nome della legione dei soldati francesi in Algeria. In ogni caso, racconta il Gambero, “già dalla seconda metà dell’Ottocento in Vietnam, uno dei maggiori paesi produttori di caffè, si utilizzava questa combinazione, con una ricetta chiamata Cà phê đá”. La base è un caffè tostato scuro e macinato grossolanamente, estratto con la french press. Anche in questo caso, come per il caffè leccese, “ricorre un elemento dolce, il latte condensato, con aggiunta di ghiaccio”.
Dal Vietnam questa bevanda, così come il caffè stesso, “si è iniziata a diffondere molto di più a partire dai primi anni del Novecento. Fino ad arrivare nel Sud America, più precisamente in Cile”. Qui, c’è la tradizione del Cafè Helado, bevanda tutt’oggi molto popolare durante l’estate.
Irresistibile per i palati più golosi, “il caffè con ghiaccio in stile cileno si compone di espresso, polvere di caffè, crema cantilly, cannella, semi della bacca di vaniglia, dulce de leche e mandorle tritate o nocciole”. Al drink ipercalorico può essere aggiunto, a piacere, anche del gelato alla vaniglia. “Naturalmente, oggi non tutti questi elementi vengono utilizzati insieme, e la maggior parte dei clienti può scegliere a proprio gusto il mix preferito”, precisa la rivista dei consumatori curiosi e golosi.
Ma non finisce qui: in Australia, invece, esiste una versione più contemporanea del caffè con ghiaccio: si tratta di una sorta di milkshake non mescolato, servito con gelato e panna montata. La bevanda comprende spesso anche sciroppo, panna, cacao in polvere e chicchi di caffè. “Quella australiana è una versione molto più commerciale”, spesso venduta preconfezionata nei supermercati e addirittura disponibile anche nei distributori automatici. Altre varianti simili sono ampiamente diffuse in Germania, Stati Uniti, Canada. E così via nel resto del mondo.
In definitiva, sono tanti i popoli che durante la stagione calda “amano deliziarsi con un buon caffè in versione estiva”: gelato, crema, panna fino ad arrivare alla casalinga granita di caffè.
La lista delle proposte non ha limiti, ma una leggenda narra che il Salento abbia importato dalla penisola iberica questa usanza, precisamente da Valencia, dove sulla costa orientale vive ancora la tradizione del Café del Tiempo, a base di ghiaccio e agrumi. A Lecce, il re del caffè con ghiaccio è Edoardo Quarta, nota famiglia di torrefattori salentini, ideatore di una “linea di caffè di ricerca”.
AGI – Estate, tempo di gelato. Un amore culinario che non conosce crisi, visto che il consumo di coni e coppette in Italia resiste anche all’inflazione. Ma, sensazione di refrigerio a parte, che cosa rende così apprezzato l’alimento più iconico dei mesi caldi? “Il gelato non è semplicemente un alimento tra i tanti, ma è l’oggetto di un piacere che si concede alla sensorialità, distante da valutazioni di carattere nutrizionale e salutistico”. A dirlo all’AGI è Ernesto Di Renzo, antropologo dei patrimoni culturali e gastronomici e docente presso l’Università di Roma Tor Vergata.
Secondo l’esperto, “il gelato è una ‘indispensabile superfluità’ che gli uomini si concedono da oltre due millenni per assecondare una caratteristica di specie che li contraddistingue da qualunque altro essere vivente: la ricerca edonistica del piacere. E oltre all’esperienza del piacere, e alla gratificazione sensoriale, non vi sono altre ragioni significative che giustificano il suo consumo”. Per Di Renzo, che nel suo libro ‘Mangiare l’autentico’ sottolinea l’influenza del marketing sulle scelte alimentari degli italiani, anche l’attuale proliferazione di gelaterie artigianali e gusti di qualsiasi tipologia rientrano in una imposizione dell’industria culturale.
“La cultura, nel suo attuale dispiegarsi all’insegna della post-modernità, ci rende particolarmente sensibili verso i temi della sostenibilità, dell’autenticità e naturalmente dell’artigianalità. Quest’ultima ci viene presentata come l’alternativa a tutto ciò che è industriale, scaffalato e replicato all’infinito, secondo criteri di standardizzazione e di omologazione produttiva. Dire che un prodotto è artigianale significa attivare nella mente una narrazione che ci porta a immaginarlo come parte di un mondo idealizzato dove tutto è fatto secondo antichi saperi e criteri ispirati alla qualità, non alla quantità e alla standardizzazione”.
Per l’esperto, quindi, è per questo che “il mondo della produzione dolciaria, alimentare e gelatiera tende ad appropriarsi della nozione di artigianalità, anche quando questa non c’è, né ci potrebbe assolutamente essere, visto la mole di prodotto commercializzato. E il marketing, che molto spesso si appropria dei concetti dell’antropologia a peso d’oro, fa esattamente questo: cerca di rendere qualcosa buono da pensare affinché sia ritenuto buono da mangiare. E affinché sia reputato conveniente da vendere”.
L’artigianalità quindi, spesso è un utile mito
Così come la presunta origine italiana del gelato. “Se rinunciamo per un attimo a essere italocentrici, come spesso ci capita di fare dinanzi ai successi mondiali in campo gastronomico, potremmo convenire sul fatto che il gelato è una invenzione senza inventore, capace costantemente di reinventarsi nel tempo. Così come sorbetti, granite, cremolate e via dicendo. Prelibatezze a base di ghiaccio erano consumate nell’antichità classica tra i Romani, i Greci e gli Egizi. Nel Vicino Oriente si degustavano sorbetti triturando il ghiaccio e addizionandolo con essenze naturali e vegetali. Dall’Est del Mediterraneo gli Arabi hanno portato in Sicilia la loro idea di gelato facendo sì che da qui, arricchito di zucchero e di essenze di agrumi, risalisse tutta la Penisola per poi diffondersi ovunque in Europa e nel mondo”.
“Ad ogni passaggio, però, reinventandosi continuamente in nuove forme, in nuovi gusti, in nuovi modi realizzativi, in nuove tipologie di consumatori e in diversi momenti del consumo. Momenti che, se fino a qualche decennio fa prediligevano soprattutto l’estate e i luoghi all’aperto, con il modificarsi progressivo dei gusti, delle tecnologie del freddo e anche dei cambiamenti climatici, hanno reso il gelato un prodotto quattro-stagioni da sorbirsi in casa, per strada, nei luoghi pubblici, a Ferragosto, a Natale. In ogni caso, sempre sotto forma di piacere che ci si auto-concede con lo scopo di premiarsi, di compensarsi, di risarcirsi, di coccolarsi, di sentirsi perennemente fanciulli”.
Insomma, il gelato non ha nulla da temere. Che sia per la bontà, per le strategie di marketing o per la sua storia, non rischia di essere sostituito da altri alimenti iconici. “I gelati potranno avere nuovi gusti, nuove consistenze, nuove tipologie di consumatori, nuovi momenti e contesti di consumo, ma è altamente improbabile che cessino di essere desiderati o che vengano sostituiti da altro. A meno che la realtà virtuale non proponga una virtualizzazione del gusto. Il piacere, invece, già in molti casi è stato reso virtuale”.
AGI – Le sprovvedute che nei primi giorni di programmazione sono andate a vedere ‘Barbie’ ignorando il passaparola sul dress code rosa in sala hanno dovuto fare i conti con un effetto Alain Elkann in completo di lino blu sul treno Roma-Foggia dei “lanzichenecchi”.
Una smagata come Ilary Blasi invece lo sapeva eccome ed era pronta a mescolarsi alle ragazzine barbieggianti, come testimoniano i suoi post su Instagram con tuta monospalla attillatissima rosa shocking e trucco glitterato mentre si preparava ad andare al cinema. Avendo esagerato parecchio, è stata salvata in corner dalla figlia Chanel che sempre via social ha scritto “Tranquilli ragazzi, non l’ho più fatta uscire così”.
Ma adesso, a qualche giorno dal debutto italico del film ultrafemmminista di Greta Gerwig che sta rivitalizzando il botteghino con l’incasso ‘monstre’ di 12 milioni di euro in una settimana, è impossibile non sapere che al cinema bisogna vestirsi come confetti e che c’è un film che fingendo di celebrare la bambola e i colori pastello della Mattel è un manifesto femminista sul diritto a essere sì rosa ma anche imperfette (e a mettere al loro posto i tanti Ken che ogni donna trova sulla sua strada). Perché vetrine, palestre, ristoranti, parrucchieri, videogiochi e perfino le app per incontrare l’anima gemella sono diventati tutti tasselli reali della Barbieland cinematografica.
Sul sito di dating Bumble i protagonisti del film danno consigli a chi cerca la sua Barbie o il suo Ken nella vita vera: “Dal momento che Bumble e Barbie mettono al primo posto la gentilezza, abbiamo deciso di collaborare per incoraggiare la nostra community a inviare messaggi premurosi, diffondendo allegria” così viene spiegata la partnership. Un Truman show in versione rosa al quale anche chi vive come un hikikomori, chiuso nella sua stanza davanti al computer sarà difficile sottrarsi considerando che si è adeguato anche Google, con lo schermo che si tinge inesorabilmente di rosa con brillantini e stelline in tinta che invadono lo schermo se si osa digitare ‘Barbie film’.
Quella che ruota attorno al film con Margot Robbie e Ryan Gosling è una delle più totalizzanti operazioni di marketing mai viste, un’invasione rosa anticipata da Valentino con la sua ‘Valentino Pink PP collection’ presentata nell’autunno scorso e che quindi ha coinvolto una serie eterogenea di marchi, per tutte le tasche, danarose e non. Procurarsi il vestitino a quadri bianchi e rosa indossato da Margot Robbie nel film è semplicissimo e pure economico, ci ha pensato Zara nella sua capsule ispirata alla bambola di Mattel, per tutte le taglie e i tipi di fisicità in omaggio al messaggio inclusivo del film che annovera anche una Barbie extralarge tra le bambole di successo di BarbieLand.
Mentre impazzano gli aperitivi a tema (ovviamente pink e rigorosamente accompagnati dall’hummus rosa, realizzato con la barbabietola) Superga ha messo sul mercato le sneakers rosa con la scritta Barbie e andare in palestra con la solita canottierina nera fa ormai una tristezza infinita, serve assolutamente il top rosa Barbie, così come stanno andando a ruba gli smalti rosa e glitter, per accecanti “pink nails” come quelle appena sfoggiate da Selena Gomez per il suo 31° compleanno. E ancora: sono rosa “candy” anche le borracce ed è saltata sul carro anche la penna Barbie rosa firmata Montegrappa, anche in versione celeste dedicata al povero Ken..
Ormai si parla di estetica “Barbiecore” in omaggio al rosa: “Tutti volevano una scusa per indossarlo” ha detto non a caso Margot Robbie, il cui biondo sfoggiato nel film adesso è la sfumatura più richiesta dal parrucchiere. Tutti parlano di Barbie e tutti la cercano: non a caso l’hashtag #barbie su TikTok, YouTube e reels di Instagram è aumentato del 145 per cento nella prima metà del 2023 rispetto all’anno scorso. Solo su TikTok i video con lo stesso hashtag hanno accumulato oltre 50 miliardi di visualizzazioni, mentre quelli targati #BarbieTheMovie 1,7 miliardi.
Siamo circondati dall’invasione rosa anche al ristorante, con il “Barbie Burger” inventato da Burger king: un doppio cheeseburger con bacon e cheddar accompagnato da una salsa affumicata addirittura “fucsia”, in un menu che prevede anche le Ken’s Potatoes, (Ken non poteva che essere un contorno, come il povero Gosling nel film). E non sfuggono neanche i vegani visto che Flower Burger, catena di ristoranti vegani, ha creato un hamburger rosa dedicato a Barbie: composto da un mix di lenticchie, riso basmati carote e zucchine come carote e zucchine, racchiusi in un panino colorato con estratto di barbabietola.
Troppo? Il rischio concreto è l’indigestione a tutto campo. Di questo passo, per reazione, torneremo tutti a vestirci di nero. Ma, intanto, divertiamoci a colorare di rosa questa strana estate.
AGI – I bimbi italiani risultano essere i più maleducati a tavola. Specie se al ristorante. Non è un’osservazione ad occhio nudo, ma lo certifica uno studio dell’Istituto Italiano di Studi Transdisciplinari: “Mani intrise di sugo strisciate sui muri, lancio di pezzi di pane, tovagliolo inzuppato nella bibita o nel pappone mescolato nella coppa gelato, bagni allagati e rivestiti di carta igienica, mentre mamma e papà chiacchierano indisturbati”, riassume un articolo del Gambero Rosso.
Sono questi i principali capi d’accusa verso i bambini italiani. Chiosa il mensile dei consumatori curiosi e golosi: “Se un bambino si comporta male al ristorante, la colpa non è sua. I piccoli sono grandi imitatori e imparano soprattutto osservando noi grandi. Le buone maniere a tavola devono dunque partire da casa”.
E ancora: “Un bambino (così come un adulto) non deve disturbare gli altri ospiti, quindi ignorare un bambino che si alza da tavola per correre tra i tavoli e intralciare il lavoro dei camerieri è il comportamento da condannare nel genitore, non nel bambino”.
Ma la reprimenda genitoriale parte da una domanda delle domande: “Un bambino che corre, urla o che lascia il tavolo come un campo di battaglia è maleducato, o semplicemente educato male?”
Segue naturalmente un decalogo di un buon comportamento, secondo cui “al ristorante si va per mangiare e stare insieme”, non per urlare, non per cantare, non per correre, non per giocare. Quindi “forchetta e cucchiaio si usano per portare il cibo alla bocca”, e non il contrario. Le posate sono da impugnare e usare correttamente e “non per lanciare un tappo di sughero o un pezzetto di carta arrotolato e fissato con un elastico a un paio di bacchette cinesi”.
Una pietanza non piace? “Compito del genitore sarà di stabilire la regola che si assaggia tutto quello che viene portato a tavola. Se poi non piace, lo si dice senza fare scenate”. Quinto: non ci si dondola sul seggiolone o la sedia; i camerieri del ristorante si ringraziano; non si gioca con i cibi nel piatto; non si parla o si ride a bocca piena; no baby-sitter digitale, “quando si mangia insieme al ristorante, l’elettronica si tiene spenta”.
Ultimo e decimo comandamento, “gestire lacrime e strilli”. Meglio, “se un bambino piange al ristorante spesso è perché è stanco”. E alle undici di sera “il ristorante è davvero il luogo migliore per un bambino?” ci si domanda. Quindi, novantanove volte su cento, “se i bambini piangono a squarciagola al ristorante, non è colpa loro” e “obbligare un bambino a un pranzo interminabile è una crudeltà”.
Una volta si diceva: “Dopo Carosello, tutti a nanna”… Ora non più.
AGI – Brusca frenata per l’industria-locomotiva dell’industria delle bollicine nel mondo. Dopo il vino fermo, anche il Prosecco italiano ha una inversione di tendenza. A certificarlo è l’Osservatorio dell’Unione Italiana Vini (Uiv) secondo cui nel periodo gennaio-aprile 2023 il segno meno davanti agli importi per i volumi delle bollicine si presenta come una costante: -20% nel Regno Unito, -6,8% per gli Stati Uniti, -2,4% in Germania.
“Sostanzialmente è il Prosecco a perdere terreno un po’ dappertutto, anche oltre la media degli sparkling”, gli scintillanti, spiega il Gambero Rosso: ovvero, -20,2% nel Regno Unito, -12,1% in Belgio, -9% in Svizzera, -8,6% in Germania, -4,5% negli Stati Uniti mentre a tirar su le vendite restano solo “Francia (+12,7%) e Russia (+47,9%)”. In quest’ultimo caso, però, la crescita è dovuta a un periodo di stallo delle importazioni legate al conflitto ucraino, “quindi, l’exploit è da prendere con le pinze”, chiosa il mensile gourmet.
A conti fatti, complessivamente nel primo quadrimestre dell’anno 2023 le vendite di Prosecco nel mondo “sono andate giù a volume del 5,9%, tornando sulla linea dei 100 milioni di litri, a fronte di un -3% dell’intero comparto bollicine”. Va bene l’Asti che, in controtendenza, riesce a mettere a segno un +18,7%.
L’altro segno positivo spetta agli spumanti varietali (+11,5%). Da segnalare anche che tra gli scaffali della Grande Distribuzione Organizzata, super e ipermercati, le cose non sembrano andare meglio: come rileva l’analisi dell’Osservatorio Uiv-Ismea su base Nielsen IQ, la tipologia sparkling “è passata da un robusto +4% a volume del primo trimestre a un -0,8% del semestre, tenuta a galla dalla crescita degli Charmat low cost”. In particolare, il Prosecco ha totalizzato un –5,8% in termini di volumi, soprattutto per effetto del brusco stop della Docg (a -21%). E la corsa al ribasso riguarda quasi tutte le denominazioni di sparkling, eccezion fatta sempre “per l’Asti Spumante (+5,9%), insieme agli Charmat a basso costo (+8,6%) che fissano il prezzo a 4,6 euro/litro, quasi il 40% in meno del Prosecco”.
Si tratta di un calo fisiologico che suona anche come un primo segnale di allarme? Secondo Carlo Flamini, responsabile dell’Osservatorio Uiv, “è ancora presto per dirlo” tuttavia “in alcuni Paesi come gli States potrebbe essere la conseguenza di un overstocking del 2022, quindi probabilmente il dato andrà a stabilizzarsi nel proseguo dell’anno”.
Sicuramente, però, prosegue Flamini, “c’è un trend che non si può ignorare e che riguarda quasi tutti i mercati: il consumatore, forzato dall’aumento dei costi della vita, è diventato molto più attento al portafoglio, scoprendo così di poter bere bollicine meno costose; a maggior ragione se parliamo di consumi casalinghi legati alla mixology”. In questo caso leggasi: Spritz.
“Non a caso”, conclude Flamini, “gli unici spumanti a crescere in questa prima parte sono gli Charmat secchi, magari sempre prodotti a partire da uva glera: una sorta di surrogato del Prosecco”.
AGI – La domanda è di quelle amletiche: una volta aperta, la bottiglietta del ketchup va tenuta in frigo o può star fuori? Cioè, può stare tranquillamente nella dispensa della cucina “insieme allo sciroppo d’acero, al miele o alla salsa di soia” oppure dev’esser tenuta in un luogo freddo “al pari della maionese e del condimento per l’insalata”?
L’argomento in sé è da sempre controverso, ma come racconta il Guardian, la sua attualità è stata riproposta giorni fa da un tweet della casa produttrice, la Kraft Heinz, su cui perentoriamente c’era scritto: “Il Ketchup va nel frigo!!!”, con ben tre punti esclamativi.
L’invito è stato poi accompagnato da un sondaggio Twitter secondo cui oltre il 62% degli intervistati ha dichiarato di tenere il condimento nei propri frigoriferi, mentre il 36,8% preferisce tenerlo sullo scaffale della cucina, nell’armadietto o nella dispensa.
La controversia ovviamente riguarda la tenuta del prodotto alla temperatura ambiente, anche in relazione all’aria che può filtrare attraverso il tappo inducendo la formazione di muffe e impurità varie così da comprometterne sapore e genuinità. All’annoso interrogativo, qualche tempo fa ha cercato di dare risposta l’HuffPost, sottolineando che la migliore conservazione del prodotto dipende solo dall’uso: se usato una raramente, la bottiglietta aperta forse conviene tenerla nel frigo a una temperatura tra i 2,5 e i 4°, ché garantisce un perfetto equilibrio, al contrario se usato con frequenza, la confezione può rimanere tranquillamente fuori in bella vista.
Il parere dello chef (italiano)
I ristoranti, che usano il ketchup quotidianamente, tengono la bottiglietta fuori dal frigo. A questo punto, però, si pone un altro interrogativo, oltre ai panini, agli hamburgher, il ketchup è ammesso oppure no in cucina, specie quella italiana? Come viene impiegato, di solito, in che pietanze?
A rispondere è Luciano Monosilio, ex chef del ristorante Piparo di Roma, oggi un locale tutto suo, “Luciano”, dietro Campo de’ Fiori, una Stella Michelin conquistata ancora da giovanissimo, che sul ketchup in cucina non ha remore: “Se di qualità è un prodotto valido”, dice, “la marca può esser Kraft, Kasper o Heinz”, sottolineando che “un prodotto industriale è più sicuro d’un prodotto artigianale”. Per poi aggiungere: “I gusti ormai sono un po’ tutti uguali, standard, omologati”. “Un tempo il ketchup aveva un sapore sapido, un po’ acido, ma con il progredire del gusto ha virato in dolcezza, sull’agrodolce”.
Ma nella cucina italiana si usa? O meglio, è consentito o ci sono pregiudizi? “Intanto c’è da dire che noi abbiamo già il nostro ketchup, che è la salsa madre, conosciuti anche come ‘salsa rubra’, usata soprattutto nella cucina piemontese e da cui poi nasce anche il ketchup commerciale che noi conosciamo, ed è fatta con cipolle, pomodoro, aceto e zucchero”, spiega Monosilio. E serve per “accompagnare quelle ricette, soprattutto del Piemonte, di carne e bollito”. Lei lo usa? “Come no? L’ho usato con le capesante e come accompagno per il piccione”.
Ma sul quesito posto dal Guardian, la stella Michelin Luciano Monosilio non ha dubbi: “Una volta aperta, la bottiglia va messa in frigorifero, non ci piove. Si conserva meglio e il freddo garantisce. Il ketchup aperto va conservato in un luogo freddo e asciutto. Anche una grotta o una cantina vanno bene”.
Marilyn Monroe
AGI – Passeggiate. A piedi o in bicicletta. In inglese, trail running. Uno sport e è al tempo stesso una moda, esplosa negli ultimi 15 anni, ma che offre a chi lo pratica di percorrere sentieri lontani da strade asfaltate e che portano verso colline e montagne.
Secondo il New York Times, che cita dati della Outdoor Foundation, il numero di americani che dice di averle fatte “è triplicato tra il 2007 e il 2021”, tanto che aziende del tempo libero e del “fuoriporta” offrono vacanze sia negli Stati Uniti sia all’estero. Le mete più gettonate?
Secondo il sondaggio sono le Dolomiti, catena montuosa del nord d’Italia, ai confini con l’Austria, che vanta vertiginose rocce appuntite, ottimo cibo e una vasta rete di sentieri.
Le Alte vie delle Dolomiti, come sono chiamate, non sono percorsi semplici, spesso sono anzi impegnativi, talvolta richiedono più giorni di cammino rappresentando una vera e propria “sfida” alla resistenza fisica, tanto che a fine giornata si è tramortiti dalla stanchezza. Ma in ogni caso i sentieri percorsi offrono panorami e riverberi di luce meravigliosi, ristori gradevoli tra persone accoglienti e sempre sorridenti, rifugi “simili a hotel”, dove la notte si è cullati “da una ninna nanna di campanacci” al collo delle mucche sempre al pascolo.
Il quotidiano Usa celebra le Dolomiti e i sentieri d’alta quota affermando che “il sistema dei rifugi è uno dei migliori pretesti per accorrere a visitare” la catena montuosa, perché ce ne sono a decine con su lo sfondo “paesaggi da cartolina” come, ad esempio, “il rifugio ai piedi delle Tre Cime di Lavaredo”, catena rocciosa costituita da tre aguzzi e mastodontici spuntoni in pietra massiccia.
Un luogo descritto come “accogliente, pulito e ben illuminato, dove trovare riparo dalla pioggia e godersi una scodella di zuppa d’orzo calda o un espresso. Una piccola salvezza” tra “il calore delle baite, scorci di stelle alpine in fiore lungo i sentieri, vedute di rocce che emergono da distese d’erba verde, il piacere di una dura e faticosa camminata per arrivare in cima”. Con forti escursioni termiche tra giorno e notte, un tempo che può cambiare all’improvviso, ma poi la notte il vento ripulisce il cielo dalle nuvole.
La narrazione del New York Times, tuttavia, al di là di passeggiate e paesaggi, si concentra soprattutto sulla tavola la qualità del cibo che c’è in rifugi e baite: “L’elenco delle specialità del giorno evidenza pietanze che avremmo potuto trovare a Parigi: gnocchi di zucca con ricotta affumicata per circa 9 €, o $ 9,75. Guanciale di maiale brasato con patate, 14 € circa” e poi “nella giornata del tragitto più lungo, ci siamo fermati tre volte ai rifugi per consumare dissetanti birre chiare e soda al limone”. Infine il giornale si chiede: “Avremmo potuto camminare di più in certi pomeriggi? Di sicuro”, è la risposta, “ma forse le soste sono il vero piacere del camminare nelle Dolomiti. Eravamo sempre abbastanza sazi”. Il risultato finale?
Che durante la vacanza, confessa il reporter della testata americana al temine di un tour di sette giorni, è che “ogni notte ci mettevamo a letto un po’ prima. E ogni mattina, scendevamo a fare colazione un po’ più tardi…”.
AGI – “Mangeresti del cibo che è stato predigerito?”, si chiede il Washington Post in un servizio in cui s’afferma che è quel che accade oggi quando consumiamo molti cibi confezionati come “cereali, snack, surgelati che sono stati raffinati, pestati, riscaldati, sciolti, modellati, deformati e confezionati con ogni genere d’additivo”.
Già, perché un numero sempre maggiore di ricerche sostiene che il peso della lavorazione industriale (estrusione) a cui è sottoposto il cibo “può alterarne gli effetti sul corpo”, determinandone l’impatto “su appetito, ormoni, aumento di peso con probabilità di sviluppare obesità e malattie croniche”. Un’estrema forma di elaborazione che finisce per dar vita ad alimenti “che vengono assorbiti così facilmente dal corpo da essere essenzialmente predigeriti”. Ecco, dunque, l’interrogativo iniziale del Post. Alimenti “intensamente manipolati” da esser “ultra-elaborati”. Alcuni sono persino progettati per superare l’indice di sazietà e invogliare a mangiare ancora facendoci aumentare di peso.
Se da un lato è vero che non esiste prodotto che non sia in qualche modo trattato prima d’arrivare in negozio, nel caso degli ultra-lavorati “vengono trasformati da semplici ingredienti in prodotti industriali con insolite combinazioni di sapori, additivi e consistenze”, molti dei quali “non esistono in natura”. E attraverso sofisticati processi ne trasformano, alterandole, le proprietà iniziali per diventare fonti di cattivo stato di salute del corpo.
È così che molti paesi hanno emanato linee guida dietetiche che incoraggiano le persone a includere più alimenti non trasformati nella loro dieta. Brasile, Belgio, Israele e Uruguay hanno poi pubblicato linee guida dietetiche che invitano a non consumare cibi ultra-elaborati. Negli Stati Uniti, gli alimenti ultra-elaborati costituiscono “il 58% delle calorie consumate” dalle persone, e gli esperti stanno ora indagando a fondo il legame tra alimenti ultra-elaborati e obesità, negli Usa vera e propria piaga sociale.
Più economici, ma a che prezzo?
L’industria alimentare si difende dicendo che “gli alimenti trasformati in genere aiutano a produrre alimenti più economici, disponibili e accessibili”, come sostiene Bryan Hitchcock, responsabile scientifico e tecnologico dell’Institute of Food Technologists, motivo per cui “le tecnologie di lavorazione su scala industriale aggiungono valore, sicurezza e nutrizione riducendo costi, perdite e sprechi”. A quale prezzo?
Molti alimenti ultra-elaborati all’inizio hanno cereali ricchi di fibre come grano, riso, avena e mais, ma poi le aziende utilizzano “rulli in acciaio ad alta velocità per trasformare i grani in farina o piccole particelle e in alcuni casi i chicchi vengono anche raffinati, “il che significa che vengono rimossi i loro componenti ricchi di fibre e sostanze nutritive, come crusca e germe” utilizzando amidi raffinati “per addensare e migliorarne il gusto al palato”, come nel caso di budini, salse, condimenti per insalata, zuppe in scatola, stufati e prodotti da forno.
Il risultato è che il processo industriale di “estrusione” ha reso l’industria multimiliardaria ma distrugge “la matrice alimentare dell’amido, rompe le rigide pareti cellulari, i granuli che contengono catene di glucosio”.
L’industria e multimiliardaria perché la sua tecnologia “è efficiente ed economica” e consente di produrre “un’ampia gamma di alimenti pronti per il consumo” incidendo sul costo finale dei prodotti realizzati in grandi quantità.
Ecco perché la “cottura per estrusione” a pressioni e temperature molto elevate è una sorta di “predigestione del cibo”. E il processo “accelera la velocità con cui i nostri tratti digestivi assorbono il glucosio e altre sostanze nutritive, causando picchi di zucchero nel sangue e livelli di insulina” come dimostrano ampi studi in materia.