Newsletter
Share on FacebookShare on Google+Tweet about this on TwitterEmail this to someone

AGi – La macchina scavatrice, la gru girevole, schizzi e studi di ala meccanica, di fontane e del moto perpetuo, disegni di architettura e del letto di un fiume. Fatti a penna a inchiostro, con il gessetto, o con l’acquerello. Sono i soggetti dei dodici speciali foulard rifiniti a mano, esemplari unici ispirati alle 12 tavole del Codice Atlantico realizzati da Dolce & Gabbana per una iniziativa benefica, in collaborazione con Confindustria, Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano e Finarte. I foulard di alta sartoria saranno oggetto di un’asta il cui intero ricavato verrà devoluto alla Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano, per la tutela e la conservazione del suo patrimonio. Questa iniziativa arriva dopo il successo della mostra “Imagining the future. Leonardo da Vinci: In the mind of an Italian genius”, organizzata da Confindustria, che in occasione dell’apertura della sede a Washington nell’estate 2023 ha portato per la prima volta dalla Biblioteca Ambrosiana agli Stati Uniti, le dodici preziose tavole del Codice Atlantico vinciano, e di cui Dolce&Gabbana è stata tra i partner d’eccellenza.

 

 

 

Ogni foulard di seta della collezione del duo creativo, è ispirato a una delle dodici tavole, che adesso sono tornate alla Biblioteca Ambrosiana dove riposeranno al buio per i prossimi tre anni: una summa della genialità innovatrice di Leonardo e del suo istinto alla intrapresa che traspaiono dall’analisi dei suoi modelli avveniristici.

 

L’asta benefica, resa possibile grazie al supporto della casa d’asta italiana Finarte che non imporrà alcuna commissione sulla vendita, verrà battuta il 15 marzo prossimo, e sarà accessibile da tutto il mondo online, tramite offerta scritta o telefonica a partire dal 16 febbraio. I foulard si potranno anche ‘toccare con mano’, si fa per dire, saranno disponibili per la visione su appuntamento presso la sede di Finarte in via dei Bossi 2 a Milano.

 

 

Fortemente condivisa da Confindustria, l’iniziativa si inserisce nel solco del legame d’amicizia tra Dolce&Gabbana e Veneranda Biblioteca Ambrosiana, iniziato nel 2019 in occasione dell’evento di presentazione della Collezione Alta Orologeria e rinsaldato nel 2021 con la donazione del maestoso orologio da torre Chiaravalle, ora entrato a far parte del patrimonio permanente dell’istituzione culturale. Nell’estate 2023, l’orologio è stato eccezionalmente trasferito insieme alle tavole del Codice Atlantico alla Public Library di Washington DC ed esposto all’interno del percorso della mostra “Imagining the future”. Un viaggio dall’Europa all’America raccontato anche dalle immagini del documentario Atlantico, promosso da Confindustria, presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma nell’ottobre 2023 e proiettato oggi in esclusiva alla Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano. 

 

 

 

AGI – Assistere a una partita di calcio è un’esperienza da vivere spesso in compagnia, con amici o familiari. Ed è un vero rito in cui si tifa, si canta, si esulta e si spera. Ma, oltre a tutto ciò, si mangia. Un account Instagram, chiamato ‘footy scran‘ ha deciso di raccogliere tutte le foto e le testimonianze di ciò che i vari club vendono durante i 90 minuti di un match.

 

Panini, patatine, bibite, ma anche piatti compositi, pasta, patate, dolci. Vere e proprie opere d’arte, anche bruttissime, tra semplicità e porzioni piccole o gigantesche. Ma c’è anche chi fa scelte più strane’, optando per piatti provenienti da tutto il mondo. Il canale social, intanto, ha sempre più successo, tra commenti e partecipazione attiva, con oltre 38mila follower.

 

“Ho avviato FootyScran due anni fa e volevo mostrare quali alimenti sono disponibili in tutto il mondo”, ha spiegato Tom Sibley, creatore di FootyScran, a Espn. “Non mi sarei mai aspettato che raggiungesse così tante persone o diventasse così grande, ma dimostra l’amore per il cibo nel calcio”. Per la cronaca ‘scran’ può essere tradotto con ‘avanzi’ (anche se non ha un’accezione negativa ma piuttosto una sfumatura di comicità). Ecco alcuni esempi di piatti, buoni e cattivi. 

 

Pietanze ‘tristi’

L’hot dog proposto dal Towlaw Town FC, si può fare meglio.

 

 

Cose strane che puoi mettere in un panino

Se volete assistere a un match del Workington AFC, potete farlo con uno sformato di pollo dentro due fette di pane

 

 

Guardiola approverebbe?

Non solo stadi di provincia. Se assistete a una partita del Manchester City e vi viene fame.. questa è una delle pietanze più gettonate.

 

 

Tutta la carne che puoi

Allo stadio del Blackburn invece non lesinano con le proporzioni. Evitare la sonnolenza, tra primo e secondo tempo, non è facile

 

 

Banane fantasiose

In Guatemala (stadio Carrera) è un dolce tipico e diffuso. La vera sfida è non sporcarsi troppo le mani e i vestiti

 

 

Panini destrutturati

A Chicago hanno deciso di non usare il coltello. Ingredienti interi, per assaporarli singolarmente (non una grande idea)

 

 

Pizza e altro (together)

Si chiama Skyrosa (un ‘coney’ al formaggio sopra una fetta di pizza). A Cincinnati va a ruba. 

 

Dolci strani

Chiudiamo questo menu con un dolce, strano nella forma e molto ‘fluo’, direttamente da Yokohama, in Giappone

 

 

 

 

 

 

 

AGI – Gli anni della pandemia, tra divisori in plexiglass e continue consegne a domicilio, hanno prodotto molti cambiamenti nei nostri ristoranti. E oggi, con i locali che sono tornati a essere pieni di clienti senza mascherine, non è difficile osservare come alcuni elementi classici, come i menu, stiano rivivendo una sorta di ‘nuova giovinezza’, coinvolti in un processo creativo di rinascita sempre più evidente e legato all’attualità. A indagare queste “capsule del tempo rivelatrici” è stato il New York Times, con un longform interattivo, volto a dimostrare come questi elementi abbiamo più personalità che mai. Anche al tempo dei qr code.

 

 

Le nuove tendenze

I giornalisti del prestigioso giornale americano sono tornati in redazione con 121 menu ‘fisici’ di altrettanti ristoranti. L’analisi successiva, tra elementi ben evidenti e dettagli più nascosti, ha permesso di stilare alcuni nuovi ‘trend’ che li accomunano. 

I piatti che non mancano mai

Ci sono alcune voci che hanno particolarmente colpito gli esperti gastronomici. La ‘Caesar Salad’, ad esempio, non manca mai e ha conquistato anche i locali con una forte impronta tradizionale, come quelli orientali, cubani o sudamericani. Ognuno, però, la personalizza aggiungendo elementi specifici. La si può trovare anche con il miso, per fare un esempio un po’ più al limite. 

 

Il caviale è un altro ingrediente che va per la maggiore. Lo si trova ovunque e in tutte le forme possibili tanto che “potresti persino trovarlo dentro una quesadilla messicana”, si legge nel report. Ma spiccano anche lo Yuzu, tipico agrume giapponese, e, per quanto riguarda i dolci, si segnala il ritorno prepotente della panna cotta, dessert molto gettonato soprattutto per la sua semplicità in un’epoca di continuo aumento delle materie prime. 

 

C’è anche un ritorno molto forte alla creatività per quanto riguarda le bibite non alcoliche. Si moltiplicano le varietà di tè, succhi appena spremuti o cocktail analcolici, sempre più ricercati e complessi, che possono arrivare a costare come i loro cugini alcolici. 

L’estetica

I menu si sono rimpiccioliti. E a loro volta anche i caratteri e i font utilizzati sono sempre più piccoli, più leggeri, più facili da distinguere per gli occhi. Molti ristoranti preferiscono un menu verticale e lungo non più mezza pagina, la dimensione ritenuta più giusta per tenerlo tra le mani. Basta, insomma, con le pagine da sfogliare e, sempre più, con troppe pietanze tra cui scegliere.

 

La rivoluzione riguarda anche i colori. Il bianco, il crema, e altre tinte più standard stanno lasciando il posto a versioni da ‘evidenziatore’, ‘fluo’, con rimandi precisi. Ad esempio il ‘rosa shocking’ tipico di Barbie. L’obiettivo, scrive il Nyt, è anche quello di creare dei contrasti netti con le scelte cromatiche adottate per la sala, i tavoli e le sedie, l’ambiente. 

Mascotte e animali

Distinguersi significa anche identificarsi in forme, personaggi e animali sempre più originali. Nei menu abbondano così ritagli, forme astratte, disegni artistici ispirati a figure come Matisse, Chagall, Cocteau o, anche, a più moderni fumettisti. Per gli esperti “i ristoranti sono diventati sempre più dei marchi” esattamente come “le etichette di moda”. E a volte le scelte stilistiche di questo tipo pagano di più che optare per loghi molto ricercati.

Vince l’informalità

Una formattazione all’apparenza traballante, una carta semplice, un aspetto generalmente disordinato potrebbero far storcere il naso a molte persone ma, in realtà, si tratta spesso di scelte ben consapevoli per far sì che venga trasmesso un senso di accessibilità, familiarità, vicinanza tra chef e cliente. L’umanità come preponderante ‘goal’.

Sensibilità verso lo staff e i produttori

C’è una grande attenzione nei confronti dei propri lavoratori, con la sottolineatura di alcune iniziative, come la presenza di ‘costi di servizio’ destinati a garantire salari più alti e condizioni più favorevoli. Il 20% dei menu analizzati dal Nyt prevede anche delle spiegazioni, anche piuttosto lunghe, che spiegano queste politiche. Non mancano i nomi della squadra, in sala e in cucina, con indicazioni sulle loro specialità e talenti. 

 

AGI – L’industria della moda, che genera quantità colossali di rifiuti, è sotto pressione per riciclare i tessuti, un compito estremamente complesso per il quale le soluzioni tecniche sono ancora agli inizi. Le Ong avvertono che il vero problema è la sovrapproduzione e che le innovazioni tecnologiche potrebbero essere semplicemente una scusa per i marchi per continuare a produrre miliardi di nuovi capi.

Ma le politiche che vogliono combattere i cambiamenti climatici stanno obbligando le aziende a posizionarsi in tema di riuso ed economia circolare. “I marchi devono raggiungere alti livelli di riciclo a grande velocità e se non lo fanno, la Ue li multerà in modo massiccio”, ha dichiarato Paul Foulkes-Arellano, esperto di temi legati alla sostenibilità, all’AFP.  Di seguito 6 possibili strade che possono essere sguite in tal senso. 

Separare le fibre 

La maggior parte dei vestiti è costituita da una miscela di materiali che rende difficile il riciclo. L’azienda statunitense Circ ha inventato una soluzione chimica per separare la miscela più comune, il policotone, nelle sue parti costitutive. Utilizza un processo idrotermico per liquefare il poliestere e separarlo dal cotone. Entrambi possono quindi essere trasformati in nuove fibre. Il marchio Zara li ha utilizzati per una linea di abbigliamento uscita ad aprile.

CIRC X ZARA
CIRC has developed a technology capable of creating new materials from polycotton multi-fibre textile waste, separating the polyester and natural cellulose it was originally produced with https://t.co/H7CZlbsz4E pic.twitter.com/jqBK9zFzvY

— ZARA (@ZARA)
April 17, 2023

Raccolta e smistamento

Mancano le infrastrutture per la raccolta e lo smistamento dei vecchi abiti, che devono essere tenuti puliti e separati dagli altri rifiuti.  SuperCircle riunisce società di consegna, magazzini e sistemi di tracciamento per snellire il processo. Sperano di cambiare l’atteggiamento del pubblico con bidoni per la raccolta nei negozi, etichette per la consegna gratuita e altri incentivi.

“Abbiamo bisogno di semplicità, convenienza e incentivi per i consumatori, in modo che quando hanno finito un articolo, la prima cosa a cui pensano è il riciclaggio”, ha dichiarato il cofondatore Stuart Ahlum. Iniziando con un proprio marchio, Thousand Fell, si sono rapidamente espansi e ora gestiscono tutta la logistica del riciclaggio per diverse aziende e settori, tra cui Uniqlo in Nord America.

Riciclaggio ‘in house’

Saentis Textiles ha già contribuito a vincere una sfida importante con una macchina brevettata in grado di riciclare il cotone con un danno minimo alle fibre, in modo da poter produrre nuovi tessuti di qualità. Il suo cotone riciclato è utilizzato da marchi come Ikea, Patagonia e Tommy Hilfiger.  Ora sta vendendo la sua macchina alle aziende tessili affinché ne installino una direttamente nelle loro fabbriche, consentendo loro di smaltire i ritagli e riciclarli in loco.

How Sustainability Inspires Säntis Textiles’ Creative Director – Sourcing Journal https://t.co/3rpMX7omku

— EU Sustain (@EU_Sustain)
December 8, 2021

Macchina per tessere in 3D

Unspun ha inventato una delle prime macchine 3D al mondo in grado di tessere un paio di jeans su misura, in meno di 10 minuti.  Attualmente sta costruendo la sua prima micro-fabbrica a Oakland (California) per dimostrarne il funzionamento. La macchina eliminerebbe gli sprechi di tessuto e ridurrebbe i trasporti. 

Preparazione dei vestiti

I vestiti devono essere preparati prima di poter essere riciclati: questa è la specialità di Cetia, un’azienda con sede in Francia. Alcune delle sue macchine sono semplici, come quella che rimuove le suole dalle scarpe. Altre sono più complesse. L’intelligenza artificiale viene utilizzata per riconoscere i punti duri come i bottoni e le cerniere. In questo modo un laser può eseguire il taglio senza danneggiare l’articolo. 

Catturare l’anidride carbonica

Rubi Labs ha sviluppato un modo per catturare l’anidride carbonica di scarto dalle fabbriche e convertirla in cellulosa, in modo simile al funzionamento degli alberi, dove la CO2 immagazzinata viene utilizzata indirettamente per far crescere le varie parti.  La polpa di cellulosa ottenuta può poi essere utilizzata per produrre filati. A luglio, Rubi Labs ha annunciato un progetto pilota con il gigante della vendita al dettaglio Walmart per testare la sua innovazione. Resta da vedere se sarà possibile realizzarla su larga scala.

 

AGI – Giunto alla sua 25esima edizione, il World Pasta Day consente oggi, 25 ottobre, un punto sulla diffusione globale di questo alimento: la produzione mondiale di pasta sfiora i 17 milioni di tonnellate (+1,8% sul 2021), raddoppiando i 9 milioni del 1998, quando è nata la Giornata Mondiale della Pasta, annota l’Unione Italiana Food assieme all’International Pasta Organisation.

L’Italia in quest’ambito è anche il primo produttore al mondo, con 3.6 milioni di tonnellate e un fatturato che sfiora i 7 miliardi di euro. In 25 anni è triplicata la quota export, nel senso che oggi 1 piatto di pasta su 4 che viene consumato nel mondo è Made in Italy. E stando sempre ai numeri, l’Italia risulta essere anche il Paese che di pasta ne mangia di più con ben 23 kg pro-capite l’anno, davanti alla Tunisia con 17 kg e al Venezuela con 12 kg, con un totale di 1,3 milioni di tonnellate consumate nel 2022. Tant’è che il 25% della pasta consumata nel mondo e il 75% consumata in Europa sono prodotti da un pastificio italiano. 

Numeri a parte, c’è da considerare che nel corso di questi 25 anni molto è cambiato in questo settore, perchè il mondo della pasta “si è evoluto”, al punto che è aumentata la conoscenza di questo prodotto da parte del consumatore e la pasta è stata “reinterpretata e adattata a nuovi stili di vita”. “Quest’anno festeggiamo un traguardo importante, che conferma come la pasta sia un prodotto straordinario che porta ogni giorno gioia e convivialità sulla tavola di milioni di persone di tutto il mondo”, dichiara Margherita Mastromauro, presidente dei pastai di Unione Italiana Food. Nel corso di questi 25 anni, “in qualità di produttori – aggiunge – abbiamo visto come gli chef continuino a reinterpretarla, come i gastronomi la descrivano, gli antropologi esaltino il suo ruolo sociale, cosi’ come i nutrizionisti la consiglino per una corretta e sana alimentazione”. Insomma, la pasta si propone ed è “un cibo universale, ricco di storia e cultura, sempre più simbolo di una sana alimentazione, il cui consumo è in continuo sviluppo”.

Secondo Mastromauro è “il cibo perfetto per tutti, vero e proprio alimento del futuro, che unisce al gusto e convivialità anche un approccio al cibo nel segno del benessere e della sostenibilità”. 

Rispetto al mercato, risulta che oggi – a differenza di 25 anni fa – il mondo “mangia sempre più pasta italiana”, infatti sono aumentati i Paesi destinatari (quasi 200, +6,4%) ed è triplicata la quota export, passando da 740mila a 2,3 milioni di tonnellate (+210% in 25 anni e +4,5% sul 2021), che rappresenta il 62,7% della produzione. Stando ai dati dell’Unione Italiana Food, piu’ della metà della pasta prodotta in Italia finisce all’estero e Germania, Regno Unito, Francia, Stati Uniti e Giappone si confermano i Paesi più ricettivi, acquistando complessivamente circa il 58% dell’export italiano di paste alimentari (2.187 milioni di euro).

Tra i mercati emergenti registrano pero’ ottime performance anche Arabia Saudita (+51%), Polonia (+25%) e Canada (+20%). Dal punto di vista del consumo, nel complesso la leadership della pasta – almeno in Italia – è assoluta in quanto “la mangiano praticamente tutti” (99%) almeno una volta a settimana e oltre 1 italiano su 2 la porta in tavola ogni giorno, mentre 1 su 5 (19,2%) la consuma 4-5 volte a settimana. Ma per oltre 3 italiani su 10 la tendenza e la frequenza del suo consumo sembra destinata ad aumentare, almeno in Italia, mentre 4 su 10 ritengono che ci sarà un ulteriore incremento anche all’estero, cosi’ come emerge dalla ricerca “Gli Italiani e il futuro della pasta”, realizzata lo scorso settembre dall’Istituto demoscopico AstraRicerche.

Il prodotto è tuttavia in evoluzione: guardando ai prossimi 25 anni, lo scenario che si presenta è questo: per più di un italiano su 2 (59%), si legge in una nota dell’Unione Italiana Food e International Pasta Organisation, “la pasta conoscerà nuove tipologie con farine o ingredienti alternativi, sarà conservata in packaging piu’ ecologici e biodegradabili” (52,6%) e “vedrà l’aggiunta di tanti nuovi formati” (35,4%). Ma, curiosità, la novità inattesa riguarda il consumo di pasta in momenti della giornata meno “tradizionali”, come a colazione o a merenda: insomma, a dispetto d’una presunta anima “conservatrice” degli italiani, 8 su 10 (79.5%) “dimostrano grande apertura, confermando di essere pronti a consumarla appena svegli o come break durante la giornata”, a patto che mantenga sempre alti i livelli di qualità e gusto (48.1%). Il gusto, infatti, rimane al primo posto tra i requisiti ricercati in un piatto di pasta. 

AGI – Si allarga l’onda d’urto di Barbie, il fenomeno cinematografico degli ultimi anni, con le sue provocazioni e la fantasia di Barbieland, sconfina nella moda, anzi nella Settimana più attesa per gli addetti ai lavori.

Tra gli eventi della Fashion week di Milano, c’è il Barbie Style Talent Contest per celebrare la creatività e i valori. L’appuntamento, patrocinato dalla Camera Nazionale Giovani Fashion Designer e dalla Regione Lombardia, organizzato da “Le Salon de la Mode – Musikologiamo”, è per il 24 settembre, nello Spazio Diaz, dalle ore 18 alle ore 22. Il look della bionda mozzafiato, con il suo infinito guardaroba da sogno, dagli occhiali, agli orecchini, dagli abiti rosa shocking alle scarpe con il tacco affilato, ha conquistato la storia. 

In un momento in cui il film di “Barbie” ha incassato oltre un miliardo di dollari in tutto il mondo e il suo iconico stile ha catturato l’immaginazione di giovani e appassionati di moda, il “Barbie Style Talent Contest” rappresenta “un’opportunità unica per scoprire nuovi talenti nel settore della moda e dell’hairstyling, ma va oltre la creazione di capi e acconciature ispirati a Barbie – spiega all’AGI, l’ideatrice del contest, la giornalista e manager di moda, Gabriella Chiarappa – . Offre la possibilità di trasmettere non solo lo stile distintivo di Barbie ma anche i valori fondamentali associati a questa iconica bambola, come l’individualità, l’autoespressione, l’uguaglianza, il rispetto, l’amore e l’empowerment delle donne”. In questo senso, sottolinea “il contest non si limita a premiare la creatività artistica, ma cerca di promuovere e celebrare questi valori positivi attraverso il mondo della moda e dell’hairstyling”. Vediamo in che cosa consiste la competizione.

“Gli otto fashion designer e hairstylists selezionati parteciperanno al Contest, dove dovranno creare rispettivamente un capo d’abbigliamento e un’acconciatura ispirati all’iconica bambola Mattel, Barbie – continua Chiarappa – . I fashion designer realizzeranno un capo di moda che richiama lo stile di Barbie, mentre gli hairstylists dovranno creare un’acconciatura che si ispira a questo stesso stile. I vincitori avranno l’opportunità di vedere i loro lavori premiati e, nel caso dei fashion designer, il capo potrà essere prodotto  da Silvian Heach, un noto brand di moda”.

A decretare i vincitori sarà una giuria, composta da esperti e figure istituzionali, tra cui: Francesca Caruso, Assessore alla cultura della Regione Lombardia, Alessandra Giulivo, Presidente della Camera Nazionale Giovani Fashion Designer,  Vanessa D’Amico, Design Director RTW Tod’s,  Mena Marano, Ceo del Gruppo Arav Fashion, Marco Giuliano e Nicolò Bologna, Designer MarcoBologna e Silvian Heach; Pablo Ardizzone, make-up Maestro. Per il settore hair, Isabella Corrado, Hair Stylist Senior Vogue Salon.

AGI – M.A.D.E – Made in Italy, Made Perfectly è la campagna di comunicazione che vuole omaggiare le maestranze e gli artigiani che fanno grande il sistema moda italiano. A lanciarla è stato il presidente di Otb, Renzo Rosso nella cornice del salone degli Arazzi al ministero delle Imprese e del Made in Italy a Via Veneto. L’iniziativa vedrà il suo momento conclusivo il prossimo 15 aprile, quando per la prima volta verrà celebrato nel mondo la Giornata del Made in Italy così come previsto nella proposta di legge in discussione in parlamento, ha ricordato il titolare del ministero, Adolfo Urso.

Il progetto racconta attraverso i volti, i materiali e l’ambiente di lavoro le storie di alcuni dei più importanti fornitori di Otb, holding italiana che controlla i marchi Diesel, Maison Margiela, Marni, Jil Sander, Viktor&Rolf. L’iniziativa coincide con i dieci anni di C.A.S.H. per il supporto concreto alla filiera della moda che permette di incassare anticipatamente, tramite un istituto bancario, i crediti vantati verso Otb a condizioni economiche estremamente agevolate. Un’iniziativa questa che ha permesso ai fornitori e agli artigiani di affrontare con maggiore serenità il momento pandemico.

La sfida dell’innovazione e della sostenibilità

Ad oggi hanno aderito a C.A.S.H. 65 imprese che hanno ceduto l’86% dei loro crediti, con più di 450 milioni di pagamenti erogati. Da qui nasce la campagna M.A.D.E. acronimo di manualità, artigianalità, dedizione ed eccellenza. Un vero e proprio tributo a chi ogni giorno, dietro le quinte, rappresenta il cuore dell’eccellenza italiana e delle grandi firme esportate in tutto il mondo. Dei video diffusi sui canali di Otb, racconteranno queste storie italiane dislocate su tutto il territorio nazionale fatto di volti, materiali, conciature nella sfida con la modernità. In un mondo contrassegnato dal fast anche nella moda, Otb decide di accendere un riflettore sulle maestranze della couture nostrana, fatta talvolta di piccole e piccolissime imprese e dei loro laboratori.

“Sono i piccoli produttori, le imprese artigiane i veri artisti che danno vita alla filiera italiana della moda. È proprio grazie a loro che il made in Italy è riconosciuto e amato nel mondo. Il gruppo Otb è intervenuto in questi anni offrendo alla propria filiera possibilità di crescita, formazione, innovazione, trasformazione digitale e tecnologica, e linee guida per il rispetto dei valori di sostenibilità e trasparenza” ha detto Renzo Rosso al Mimit, raccontando le linee guida di questo nuovo progetto che culminerà ad aprile 2024.

Per aiutare davvero la filiera del Made in Italy non si può pensare in termini di assistenza e il governo non può fare tutto da solo: le risorse vanno investite bene e per questo vanno affidate a imprese di grande e medie dimensioni che hanno gli strumenti per gestirle e la capacità di supportare le più piccole in termini di sviluppo e crescita – ha suggerito Rosso – il lusso è fatto di una manualità che va portata avanti e trasferita alle giovani generazioni, per questo stiamo insegnando ai ragazzi questi mestieri e il 90% trova lavoro dopo la nostra formazione”.

La storia di un prodotto il segreto del successo

Dietro M.A.D.E. c’è quindi un’idea di impresa che parte dall’anello più piccolo della catena di valore e lo vuole raccontare, portando alla luce soprattutto chi rimane lontano dalle passerelle della moda. Rosso ha poi ricordato la sfida della sostenibilità in cui tutti i grandi marchi sono coinvolti. Otb è impegnata da alcuni anni nel Fashion Pact che coinvolge 70 griffe impegnate a raggiungere l’impatto zero entro il 2030. “Abbiamo approfittato troppo del pianeta e abbiamo l’obbligo di consegnare un posto decente dove vivere alle prossime generazioni” ha ricordato il presidente di Otb che ha aggiunto “il consumatore moderno vuole conoscere la storia dei propri capi. Questo è possibile grazie a QR Code e alla block chain che permette di tracciare la storia di ogni singolo materiale dei capi indossati”.

M.A.D.E. è una campagna di comunicazione, ma anche un appello per una maggiore attenzione verso la moda che rappresenta la seconda industria del paese per esportazioni. Fatta di grandi marchi che senza i piccoli artigiani non esisterebbe. 

AGI – Che sapore ha il granchio blu? Quello di “un astice mancato” o che “non ce l’ha fatta” a diventarlo. A chiederselo e a rispondersi è il Gambero Rosso in una inedita stroncatura del crostaceo dell’estate 2023, che ha invaso mari, lagune, fiumi e financo i laghi, quello di Massaciuccoli stando alle cronache, divorandosi ogni genere di pesce.

I redattori della sofisticata rivista gourmet si sono infatti concessi o “regalati” una pausa dall’intenso lavoro estivo con uno spaghettone al crostaceo blu del momento in riva al mare. E osservano: “La pasta è servita bella al chiodo, saltata con pomodoro ciliegino, un ottimo olio piccante e dosi generose dell’invasore delle coste italiane, che ama le vongole e si diverte a ricamare le reti dei pescatori e degli allevamenti con le sue lunghe chele”, spiega l’articolo, “le venature sono tipicamente bluastre” ma “il sapore?”. Già, e il sapore?

Ed ecco il risultato dell’inedita degustazione gourmet: “Fondamentalmente, il granchio blu sa di poco”, il primo appunto, anche se “il ricordo è lontanamente legato alla dolcezza dell’astice”, tuttavia “l’intensità è nettamente inferiore, così come la sua consistenza, più sfilacciata e meno carnosa”. Punto. Seguono poi una serie di annotazioni: “La sapidità è sussurrata, l’eco marina è molto sottotraccia”. Insomma, “ci gustiamo, con un certo piacere, un ottimo spaghetto al pomodoro con un ‘ricordo’ di mare, dovuto probabilmente alla pochissima polpa bianca e delicata che offre il crostaceo”.  

Conclusione? “Ecco”, scrive il recensore, ”bisogna armarsi di pazienza e in tema abbinamenti” il granchio blu “lo vediamo più accanto a ricche insalate che sui primi”.

A chiudere l’articolo, ecco però il giudizio di un esperto, Maurizio Criscuolo, titolare del Jolly Lido e di Osteria Nuova ad Anzio, secondo il quale va fatta “una prima distinzione tra i granchi blu dell’Adriatico e quelli del Tirreno”, perché “i primi hanno una pezzatura piuttosto ridotta mentre quelli del Tirreno hanno un sapore assai più intenso e interessante”. I primi costano sui 5 euro, i secondi sui 13 al chilo, riferisce il ristoratore. Anche i mari e le acque hanno il loro perché.

AGI – “Ha qualche preferenza per il gin?” Non è affatto infrequente, quando si ordina un Gin Tonic, che il cameriere rivolga questa domanda. Ciascuno ha la sua etichetta preferita e ogni etichetta ha, di conseguenza, il suo gusto. Ma è ancora così? Oggi c’è una tale “esplosione di versioni e tendenze” che “ha di fatto svuotato la semplicità di un grande classico”, sentenzia il Gambero Rosso.

Ora come ora, il G&T è senza dubbio uno dei drink più in ascesa del momento, con un proliferare di Gintonerie o GinTonicherie che dir si voglia, locali che hanno un’ampissima selezione di Gin, che servono le “centinaia” di nuove etichette che nascono ogni anno con aromi e botaniche tra le più svariate e presentate “con garnish di tutti i tipi”.

Tant’è che se fino a trent’anni fa il Gin Tonic “era un drink da battaglia”, da consumare in discoteca “senza tante pretese”, a partire dagli anni ’90 “qualcosa è cambiato” in seguito alla nascita dei Contemporary Gin, termine con cui si indicano tutti quelli che “usano botaniche non tradizionali”, una tendenza che sempre di più è divenuta sinonimo di territorialità.

Al punto tale che solo in Italia ci sono circa 140 distillerie attive a fronte di una stima che parla di “almeno un migliaio di etichette” di gin sul mercato con diffusione almeno regionale. E non si contano, poi, le etichette di gin fatte una tantum per bar, associazioni, ristoranti. Una vera e propria effervescenza produttiva che fa sì che se il gin sta vivendo oggi il proprio “rinascimento”, ma il suo stesso successo ne sta decretando anche la fine.

Un paradosso, secondo il raffinato mensile enogastronomico: “C’è una superfetazione che non corrisponde più a metodi di produzione differenti, a scelte di impresa particolari, a filosofie di vita e di bevuta che raccontano chi produce”. Insomma, non si fanno più gin a misura di consumatore, bensì tagliati su imprenditori che vogliono un gin che “li rappresenti”: “Il produttore è uno solo, i marchi sono diversi” ma la maggior parte dei nuovi prodotti immessi sul mercato “è figlia di idee di marketing, prodotti realizzati da contoterzisti, spesso creati a centinaia di chilometri di distanza dal luogo la cui territorialità è vantata in etichetta”, precisa il giornale. Tant’è che “ci sono anche diversi gin distillati all’estero che però comunicano in modo esplicito la loro italianità” confondendo così il consumatore. “È possibile dichiarare di aver utilizzato limoni di Amalfi in etichetta anche soltanto aggiungendone uno per 1.000 litri di Gin e per il resto affidandosi a un qualsiasi prodotto a costi minimi”, accusa il Gambero Rosso.

Ecco perché la domanda iniziale del cameriere (“Ha qualche preferenza per il Gin?”) è anacronistica se non inutile. Come a dire: un gin oggi vale l’altro. Da cui anche la decretata “fine del G&T”.

Ed ecco anche il perché sono lontani i tempi dell’aforisma coniato da Winston Churchill secondo cui “il gin&tonic ha salvato più vite e menti di quanto non abbiano fatto i medici”. Ma potrebbe non esser più così.

AGI – Il dibattito sulla corretta conservazione degli alimenti non passa mai di moda e quello su come conservare i pomodori ha avuto una sua appendice con un pronunciamento scientifico secondo il quale “i pomodori non vanno messi in frigorifero, pena la perdita del gusto”.

La “sentenza” è contenuta in un video della rivista Focus Italia dove si esprime la divulgatrice scientifica, chimica e cosmetologa Greta Bertarini, che sul suo profilo social da oltre 20mila follower offre pillole di chimica su prodotti di uso quotidiano: “La degradazione che provoca il freddo su certe molecole volatili è irreversibile. Viene recuperata solo in parte”, dice l’esperta.

Al centro di tutta la questione c’è il gusto del pomodoro, “dato dall’unione del sapore percepito dalle papille gustative e l’odore recepito dal naso”, scrive la rivista il Gambero Rosso nel dare la notizia, e si tratta di uno di quei “gusti inconfondibili, ricordi d’infanzia, di pranzi estivi leggeri e bruschette condivise in trattoria con gli amici”.

Insomma, “toglieteci tutto, ma non il pomodoro”. Ma proprio questo sapore caratteristico finisce per sparire un po’ proprio con il freddo. E questo perché il pomodoro “è un mix di zucchero e acidi, più tante componenti volatili: la produzione di quest’ultime viene rallentata dal freddo, che rovina anche i profumi, perché inibisce gli enzimi che trasformano gli acidi polinsaturi in molecole odorose”, spiega il Gambero, secondo cui “il modo corretto, secondo la chimica, è tenerli a temperatura ambiente, ma facendo attenzione a non posizionarli vicino a frutta che produce etilene (banane, albicocche, kiwi, pesche…) per evitare una precoce maturazione dei pomodori”.

Gli irriducibili della conservazione in frigo dicono però che per recuperare il pomodoro al suo sapore originario, “basta tirarlo fuori una quindicina di minuti prima”… Ma la scienza e la chimica non sono d’accordo.

Flag Counter