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AGI – Una giacca termica di tendenza, disegnata da Rachel Antonoff e decorata con le farfalle della pasta che si cuoce a pranzo, è diventata un’attrazione per i social media e lo street style. Al punto che quando Bani Randhawa, una 27enne che frequenta la Business School a Cambridge, nel Massachusetts, ha iniziato a indossare il suo nuovo cappotto qualche mese fa, è successo qualcosa di davvero sorprendente: le persone le sorridevano mentre passava mentre altri la fermavano per chiederle: “Hai delle farfalle sulla giacca? Dove le hai trovate?”

Il suo cappotto è il Parker Puffer firmato da Rachel Antonoff, una giacca corta nera stampata con immagini dorate di pasta a forma di farfalla. E il suo cappotto è improvvisamente diventato un fenomeno stagionale in città come New York, Chicago e San Francisco. I social media sono pieni zeppi di persone in posa che si fanno riprendere mentre l’indossano. Lo stesso fanno molte attrici. Insomma, la farfalla stampata sul cappotto è diventata l’icona più venduta di Rachel Antonoff e la giacca – che costa $ 425 – è andata esaurita per ben tre volte da quando è stata introdotta alla fine del 2021, fa sapere Antonoff.

Dunque, un successo. Che si dice dovuto come reazione alla pandemia, in quanto molte persone che hanno trascorso le proprie giornate lavorative sedute alla scrivania tra conversazioni in Zoom cercavano un modo per provocare la conversazione. “Abbiamo perciò notato che le persone vengono viste dalla vita in su e volevano avere addosso qualcosa che le contraddistinguesse”, dice Rachel Antonof, che dal 2015 ha realizzato capi a tema alimentare come maglioni con torte lievitate e abiti decorati con frutti di mare. “L’eccitazione per quegli stili è rimasta”, ha affermato la stilista che ha disegnato il cappotto con la pasta a forma di farfalla.

Una moda trendy, al punto tale che pur di indossare questa giacca, c’è persino che il se l’è affittata, anche solo per usarlo una sola volta e poi dismetterla.

Abiti che parlano. O meglio, che lanciano messaggi di emancipazione, femminismo. Sono i due marchi di fabbrica di Maria Grazia Chiuri, da sei anni direttrice creativa di Dior. Al fianco delle donne per dar loro voce. L’ultima a sfilare con una sua creazione è stata Chiara Ferragni che sul palco dell’Ariston ha sfoggiato abiti manifesto della stilista italiana che ha regalato alla maison un boom di vendite.

Dal 2017, quando sono state messe in vendita le prime collezioni della Chiuri, i ricavi di Dior sono triplicati, raggiungendo i 6,6 miliardi di euro. E si sussurra che Dior potrebbe addirittura raggiungere il suo più grande rivale per i diritti di vanto della moda parigina, Chanel. Ma la stilista ha davvero riscritto le regole della moda? Se lo chiede il Guardian che sul sito riporta una lunga intervista al primo direttore creativo donna nei 75 anni di storia della maison. E si dice che Vivienne Westwood sia stata delusa di non essere stata scelta quando il posto è andato a John Galliano nel 1995).

“Tutti erano così sorpresi quando sono diventata la prima donna al comando. Nessuno parlava del fatto che lavoravo nella moda da quando avevo 20 anni”. La Chiuri era poco conosciuta al di fuori dell’industria, ma era venerata al suo interno, avendo creato l’iconica borsa Baguette per Fendi negli anni ’90 e, con il partner creativo Pierpaolo Piccioli, rivitalizzato Valentino negli anni 2000. “Penso che sia molto difficile per le donne arrivare in posizioni di potere. La narrazione è sempre che i geni sono gli uomini. Perché nessuno ricorda Vionnet [Madeleine, pioniera dell’abito tagliato di sbieco]? Era un genio più di molti uomini”.

Quando le luci si sono abbassate per la prima sfilata di Chiuri da Dior nel settembre 2016, il pubblico si aspettava un nuovo look. Un nuovo orlo, un nuovo colore, una nuova epoca rinvigorita: sono questi i modi in cui un nuovo stilista imprime un’identità a un marchio. Invece, abbiamo ricevuto un nuovo insieme di valori. Un nuovo punto di vista. Una maglietta slogan, con la citazione di Chimamanda Ngozi Adichie “Dovremmo essere tutti femministi”. Chiuri ha toccato un nervo scoperto, mettendo elegantemente in discussione il modo in cui il femminismo è visto come un’opposizione alla femminilità. Si trattava di una vibrazione radicale, proveniente da Dior, una casa che, da quando è esplosa sulle prime pagine dei giornali nel 1947 con il New Look – una vita stretta, la suggestione di fianchi da bambino sotto una gonna piena – ha rappresentato una visione romantica e tradizionale della femminilità.

Dior “ha creato quella silhouette quando le donne in Francia erano molto magre, a causa della guerra. Voleva dare alle donne un corpo che desse loro ottimismo per il futuro. Sua sorella Catherine era tornata da un campo di concentramento, quindi darle questo grande abito, dove poteva guardarsi allo specchio e vedere questo nuovo corpo, significava darle speranza”.

Ma il 1947 è stato una vita fa. I tempi cambiano: questo è letteralmente il senso della moda.

Avere una sola silhouette oggi, oggettivizza le donne. Non dobbiamo mai dimenticare che la moda parla del rapporto della società con il corpo delle donne, più che con quello degli uomini. Sono cresciuta in una famiglia femminista, in una società patriarcale. L’aborto, il divorzio – questi temi erano presenti quando stavo crescendo, e c’erano molte discussioni nella mia casa. I miei genitori non mi dicevano che dovevo trovare un marito, mi dicevano: “Devi studiare, devi trovare un lavoro, devi crearti una vita ed essere indipendente””.

Chiuri è nata e cresciuto a Roma, con una madre sarta e un padre militare. “Era una famiglia di operai. I vestiti dovevano essere resistenti e funzionali”. L’approccio intellettuale che ha portato a Dior è in contrasto con una vita domestica sempre radicata nella praticità degli abiti: cresciuta circondata dai modelli di cucito della madre, ha poi sposato un camiciaio su misura, Paolo Regini, conosciuto durante una vacanza in Sardegna. Al loro matrimonio indossava una semplice gonna bianca, una camicia di pizzo e un cappotto beige.

L’autrice ricorda la sua infanzia negli anni ’70 come un periodo di sconvolgimenti sociali in Italia. Aveva sei anni quando il divorzio divenne legale, 13 quando lo fu l’aborto. I suoi genitori hanno abbracciato il clima di cambiamento, incoraggiando le figlie a perseguire ambizioni di carriera, anche se sua madre era “ossessionata dallo stile inglese”. Piccoli camicioni ricamati! Il modo in cui voleva vestirmi non rappresentava ciò che ero”. A 12 anni Chiuri scopre i mercati delle pulci di Roma, rovistando tra jeans vintage e giacche americane. Alla scuola di design ha scelto di specializzarsi in accessori, una decisione che le è stata utile quando è diventata maggiorenne negli anni ’90, ossessionata dalle It-bag e dalle scarpe da trofeo. Da Fendi e poi da Valentino, si è ritagliata una carriera di successo pur rimanendo al di sotto dei radar.

Le cose sono cambiate quando, all’età di 52 anni, ha fatto un grande salto sotto i riflettori accettando il lavoro da Dior. Ancora oggi mantiene un’aria di autocontrollo, con un contegno insolitamente professionale in un settore in cui l’ostentazione è un’impostazione predefinita.

Chiuri parla sempre di donne, al plurale, piuttosto che di una donna. Una consumatrice che mette mano al portafogli sta, nel linguaggio saccente del femminismo mercificato, possedendo la sua bellezza, la sua sessualità, il suo potere. “Non mi piace molto la parola empowerment”, dice Chiuri. “Se vogliamo sfidare il patriarcato, le donne devono parlare di più di sorellanza e comunità. Il vero femminismo riguarda le donne che si sostengono a vicenda”.

Un anno dopo il suo debutto da Dior, la Chiuri ha aperto la sua collezione primavera 2018 con un’altra maglietta con slogan: “Why Have There Been No Great Women Artists?”, il titolo di un saggio fondamentale del 1971 della storica dell’arte femminista Linda Lochlin, una copia del quale era su ogni sedia. Questa volta, le parole non erano stampate su un semplice girocollo bianco, ma su una maglietta a righe bretoni con scollo a barchetta, sottolineando la giustapposizione del messaggio con lo sfondo della settimana della moda di Parigi, la madrepatria dello chic francese.

A questo punto, la Chiuri ha anche avviato una politica che prevede l’impiego di fotografe donne per tutti i progetti commerciali di Dior. “La gente è rimasta scioccata quando ho detto per la prima volta che volevo che fossero solo le donne a scattare per noi. Dicevano che non era possibile, che non ci sono così tante fotografe donne. Ho risposto che non è vero. Ce ne sono molte. Ma quando le case di moda vogliono scattare una campagna, chiamano sempre uomini perché lo sguardo maschile è visto come la prospettiva che conta”.

L’impegno di LVMH, proprietaria di Dior, di aumentare al 50% la rappresentanza femminile nelle posizioni chiave è al 45% in tutto il gruppo e al 50% in Dior. L’azienda si è impegnata a garantire l’equità retributiva entro il 2025.

AGI – Che fine ha fatto la mezza età?, si chiede il Guardian. La domanda non è peregrina, perché la mezza età, di fatto, non è più quella di una volta. Dipende a chi la si applica, a quali categorie di persone. Quando si tratta di personaggi dello star system, ad esempio, c’è davvero da mettersi d’accordo su cosa s’intenda.

In passato, i 40 anni erano il segno della mezza età, “ma ora trovare consenso su quando inizi e cosa rappresenti non è facile”, scrive il quotidiano londinese, che fa notare come il Dizionario inglese Collins la definisca come “il periodo della tua vita in cui non sei più giovane ma non sei ancora diventato vecchio” mentre l’Enciclopedia Britannica fissa i suoi parametri così: “Tra i 40 e i 60 anni”. Nel frattempo, un sondaggio YouGov del 2018 riferisce che la maggior parte dei britannici di età compresa tra i 40 e i 64 anni “si considera di mezza età”, ma anche il 44% delle persone di età compresa tra i 65 e i 69 anni sostiene lo stesso.

A cercare di fare un po’ di chiarezza è il professor Les Mayhew, capo della ricerca globale presso l’International Longevity Centre, secondo cui “non ha senso cercare di imporre l’età cronologica” perché oggi “con le persone che vivono più a lungo, i 30 anni non sono più mezza età, soglia che si è alzata”, tant’è che “in alcuni casi, a 50 anni si potrebbe pensare ad una seconda o addirittura terza vita, ma per altri versi invece si potrebbero avere seri problemi di salute e non essere in grado nemmeno di lavorare”. E il professore poi aggiunge: “I governi cercano sempre di imporre queste etichette di convenienza amministrativa per cose che dovrebbero accadere a una certa età, ad esempio, l’essere presumibilmente un adulto a 18 anni e non abbastanza grande invece per ricevere una pensione statale fino a quando non se ne hanno 66. Ed è totalmente arbitrario”, dice Mayhev. 

Nel frattempo, i medici di base vogliono che si prenoti un “check di mezza età, ottimo concetto jazz per uscire da ciò che dovrebbe essere un normale controllo sanitario annuale”, chiosa. Annota il giornale che la mezza età “una volta aveva una sorta di scopo, un tempo che offriva la stabilità e la continuità che venivano dall’avere un lavoro per tutta la vita” mentre ora “non dipende solo dall’impiego che potrebbe esser precario o dalla stessa funzione lavorativa”, ma una ricerca dell’Istituto per il Futuro riferisce che “l’85% dei posti di lavoro che esisteranno entro il 2030 non esistono ancora”.

Secondo la terapeuta Julia Bueno, la mezza età è la “capacità di riqualificarsi” e “riflette il fatto che ci sia ancora vita in un corpo o se questo si stia avviando verso il declino”. E approfondisce: “Sono anche consapevole che alcune persone si sentono spinte a reinventarsi, ad apparire fantastiche, a non rallentare o a invecchiare con grazia. C’è la pressione di mettere la crema rigenerante sul viso o cancellare le tracce di grigio sui capelli. Non è permesso essere solo grigi si deve essere anche glamour”. Secondo il Guardian, però, è vero il fatto che, “in passato la mezza età era associata a un particolare insieme di circostanze della vita: l’avere un mutuo, un coniuge, figli, un tosaerba per il giardino. Per molti, queste fasi della vita stanno arrivando molto tardi e a volte non arrivano persino mai. Dev’esser più difficile sentirsi nella fase d’una vita tutta pipa e pantofole quando, a 40 anni, si vive ancora in un appartamento condiviso e non si possiede un divano, figuriamoci neppure una casa…”.

Ma allora, qual è l’età della vecchiaia? “Non sono sicuro che esista un’età del genere. Riguarda più se si può vivere in modo indipendente. Ad esempio, entrambi i miei genitori hanno circa 70 anni e viaggiano ancora con la loro roulotte. Non li considero affatto vecchi”, risponde Dalia Hawley, 41 anni, che vive a Wakefield con il suo compagno, tre galline e gestisce part-time un’attività di cura della pelle.

Insomma, che sia mezza o intera, l’età sembrerebbe più un fatto psicologico. Che comunque ha a che fare col tempo che passa e con i tempi che corrono…

 

AGI – Ogni giorno una novità. Il caffè e le sue proprietà non smettono mai di fare notizia. Questa volta tocca alla caffeina, sui cui effetti le opinioni sono spesso controverse. Cosa fa effettivamente?, si chiede il Guardian. Tiene svegli? Neutralizza il sonno? Dà energia ed è un corroborante nelle prestazioni sportive? Quanto se ne può bere? Due o tre caffè al giorno ha gli stessi effetti d’una droga? Interrogativi, molti. Ma le risposte?

Scrive il quotidiano di Londra che a dire il vero “gli effetti possono iniziare prima ancora di prenderne un sorso” perché “il solo inalare il profumo del caffè può migliorare la memoria e stimolare la vigilanza”, secondo i risultati d’uno studio datato 2019, testato su 80 giovani 18-22 anni.

Una ricerca del 2018 sostiene, invece, che le persone che ne hanno inalato il profumo “hanno ottenuto risultati migliori nei test relativi al ragionamento analitico”. Ma se il solo annusarlo produce questi effetti, com’è invece bere un caffè vero e proprio? “C’è la possibilità che abbia un effetto placebo”, afferma il dottor Mike T. Nelson, ricercatore specialista delle prestazioni che ha di recente sottoscritto la posizione dell’International Society of Sports Nutrition sul caffè: sotto l’effetto della caffeina di una tazza di caffè le nostre prestazioni migliorano. Anche solo 10 minuti dopo l’ingestione mentre 45 minuti dopo si ha il picco di concentrazione nel sangue. Insomma, “la caffeina agisce come stimolante del sistema nervoso centrale, rendendo più vigili e concentrati, ma potenzialmente anche più irritabili e ansiosi” perché è “uno stimolante dell’umore”. 

Una recente ricerca del 2020, applicata a ciclisti dilettanti, ha certificato che “il caffè ha migliorato le prestazioni in media dell’1,7%”: potrebbe non sembrare molto, ma ciò è un grosso problema anche per gli atleti moderatamente competitivi, chiosa il quotidiano. Perché? “Per agli atleti che lo usano esclusivamente per migliorare le prestazioni, il consiglio è di assumere la caffeina sotto forma di pillola, perché possono controllare meglio gli effetti della sua assunzione”.
In ogni caso, il modo in cui lo si beve “fa la differenza”.

Ovvero, le miscele più scure, oltre ad aver meno caffeina, “tendono a contenere meno antiossidanti e livelli più bassi di acido clorogenico, composto che può proteggere il corpo da infiammazioni e danni cellulari”. Quando si macinano i chicchi non ha importanza, ma lo ha quanto li si macina, perché “una macinatura più fine rilascia più polifenoli, dando effetti leggermente più benefici”. Il caffè filtrato attraverso la carta può essere più salutare del caffè fatto con un filtro metallico (in una caffettiera, ad esempio) o senza filtro. 

Uno studio pubblicato nel 2020, che ha analizzato oltre 500 mila bevitori sani di caffè per circa due decenni, ha rilevato che “coloro che bevevano caffè filtrato avevano tassi più bassi di malattie arteriose e di morte”. Gli autori hanno concluso che le sostanze contenute nel caffè che possono aumentare il colesterolo Ldl – quello “cattivo” – “possono essere rimosse utilizzando un filtro”; sostengono anche che una tazza di caffè non filtrato contiene in genere circa 30 volte la concentrazione delle sostanze che aumentano i lipidi rispetto al caffè filtrato.

Alla fine, la raccomandazione qual è? “Fino a tre tazze al giorno probabilmente vanno bene, filtrate se possibile, tostate scure se si sta cercando di ridurre la caffeina, ma leggere se si cerca di trarre beneficio dagli altri ingredienti”. “Distanziandole al mattino” e cercando di “lasciare uno intervallo decente” dopo l’ultima tazzina “prima di andare a letto”…

AGI – Il Salone del Mobile, al suo 61 esimo compleanno, segna un doppio ritorno: quello dei visitatori cinesi, che a “giudicare dal numero delle richieste di visto” sarà notevole, e quello della sua consueta posizione nel calendario. Dopo lo slittamento delle ultime edizioni dovuto alla pandemia, la kermesse internazionale del design si terrà in Fiera Milano a Rho, ad aprile, dal 18 al 23. Sarà un’edizione ricca, con 1.962 espositori, di cui oltre 550 giovani talenti under 35 e 27 scuole di design.

E un pubblico sempre più internazionale. Perché se è vero che mancheranno i buyer e gli espositori russi, la loro assenza sarà bilanciata dalla presenza crescente di “nuovi operatori, come Emirati arabi ma anche India” e dal ritorno della Cina.

“Ci aspettiamo tantissimi visitatori e di qualità”. Al mondo, il Salone si presenterà con un nuovo look. “Il layout sarà completamente nuovo – ha spiegato la presidente Maria Porro – con gli espositori tutti su un unico livello per facilitare i flussi e il percorso all’interno del salone. Ci sarà un grande focus su Euroluce, la biennale dedicata alla luce, con un format radicalmente nuovo che è l’inizio di un percorso che interesserà tutta la fiera”.

D’altra parte dopo tre anni, non era pensabile ritornare ad aprile, la tradizionale posizione della manifestazione nel calendario, come se nulla fosse avvenuto. Ed è così che sono stati pensati degli spazi culturali, attraverso contenuti interdisciplinari, che spazieranno dall’architettura all’arte, con mostre (come quella di Hèléne Binet), talk, workshop, installazioni site-specific.

“La pandemia ha cambiato in modo radicale il nostro modo di vivere i grandi eventi e questo cambiamento non poteva rimanere inascoltato – spiega Porro -. Siamo un grandissimo evento, siamo in presenza e questa è la sua forza, è globale. Abbiamo pensato che fosse il momento di rilanciare sulla proposta espositiva ponendoci in attacco, dando più valore al centro del salone, cioè essere un momento di importante trade, una piattaforma che accelera il business”.

E poiché visitare la fiera con i suoi oltre 170.300 mq di superficie è impegnativo, “ci siamo resi conto che il visitatore aveva bisogno di aree di riposo, di un posto dove ricaricare il telefono e un posto per fare un meeting con qualcuno incontrato al Salone”.

Per il sindaco di Milano Beppe Sala, i Saloni sono come “le Olimpiadi del design“. È un appuntamento che richiede un grande lavoro “ma se rispetti un po’ le regole alla ‘milanese’, poi tutto funziona. Milano è pronta ad accogliere designer, progettisti, architetti e produttori, così come i visitatori e turisti amanti del design e delle innovative declinazioni che il Salone, dentro e fuori gli spazi della Fiera, saprà proporre loro”.

E sì perché esiste anche tutto il mondo ricco del Fuori salone, gli eventi che in quelle stesse date animano la città. Tutte le novità di cui ha parlato la presidente coinvolgeranno anche Euroluce, giunta al suo 31 appuntamento, che si rinnoverà nel layout espositivo, ripensato dallo studio Lombardini22 per garantire un miglior collegamento fra i quattro padiglioni, semplificare il percorso di visita, che diventa ad anello e prende ispirazione dai percorsi stradali dei tradizionali borghi italiani.

La luce sarà protagonista anche della serata inaugurale, che per il terzo anno consecutivo ‘andrà in scena’ al teatro alla Scala di Milano. Quest’anno, sia il programma sinfonico sia il balletto avranno come suggestione e leitmotiv la luce. In particolare, il balletto sul brano Light di Philip Glass sarà una prima assoluta, una coreografica originale, progettata e creata ad hoc per il Salone e la sua biennale.

Luce e Novecento americano saranno il tema della seconda parte con un programma eseguito dall’Orchestra Filarmonica diretta dal Maestro Carlo Boccadoro, con la partecipazione del soprano Lauren Michelle. Grande attesa come sempre per il salone Satellite, fucina interessante delle migliori idee. “Ci saranno oltre 550 giovani da 34 paesi – ha detto l’ideatrice e curatrice del satellite, Marva Griffin – e 27 scuole di design, le più importanti del mondo, perché quest’anno il tema è dedicato a loro. Dovranno dirci ‘dove va il design'”.

Assolutamente da non perdere l’appuntamento con il famoso architetto Gaetano Pesce, invitato per raccontare i passi principali della sua lunga carriera e il suo apporto interdisciplinare al mondo del progetto ma anche per trasmettere ispirazione, energia e passione ai giovani talenti che lo ascolteranno. 

AGI – Chi ha la celiachia ed è allergico al grano, la scelta migliore è evitare il glutine per mettersi al riparo da reazioni come diarrea, vomito, gonfiore del viso o difficoltà respiratorie entro pochi minuti o ore dopo aver ingerito alimenti contenenti farine di grano.

Eppure, in un sondaggio risalente al 2017 su mille persone negli Stati Uniti e in Canada che hanno acquistato generi alimentari senza glutine è risultato che il 46% ha affermato di aver acquistato quei prodotti per motivi diversi da una “necessità medica” stringente, sostiene il New York Times, che si chiede anche se pagnotte, focacce e biscotti “sono un’opzione altrettanto nutriente”, oltre che sicuramente più costosa. Talvolta persino il doppio del prezzo usuale del pane normale.

Il glutine è una proteina presente nei chicchi di grano, orzo e segale. Nel pane tradizionale a base di farina di frumento, il glutine forma una rete proteica che rende l’impasto coeso ed elastico e conferisce al pane quella consistenza gommosa e soddisfacente per eccellenza.

Tuttavia il glutine o altri componenti del grano possono causare problemi di salute in talune persone, provocando gravi allergie. Si stima che l’1% delle persone al mondo ne soffra. Ma stando al sondaggio del 2017, tra le principali motivazioni addotto nel consumo di prodotti senza glutine, c’è quella di voler ridurre l’infiammazione o consumare meno ingredienti artificiali, credere che i prodotti senza glutine siano più sani o più naturali e pensare che tali prodotti aiuterebbero a perdere peso. Vero o falso?

Secondo Anne R. Lee, dietista e professore di Medicina nutrizionale al Celiac Disease Center del Columbia University Medical Center, “in genere, i prodotti senza glutine sono più ricchi di grassi, zuccheri, di sale e meno ricchi di fibre, vitamine del gruppo B e di ferro“, quindi fanno meno bene. Infatti, i produttori di pane senza glutine spesso aggiungono anche zucchero, grassi e sale ai loro prodotti per renderli più gustosi e poiché il pane senza glutine tende a contenere più acqua, grassi e amido raffinato rispetto al pane a base di frumento, “si rovina e diventa raffermo più rapidamente”.

Per tutti questi motivi, sottolinea il Times, “evitare il glutine non è sempre la scelta migliore”, perché “c’è anche la qualità della vita da considerare”. Il cibo, in effetti, “non è solo carburante per il nostro corpo, ma dà anche piacere”. Quindi? “Se si pensa di avere un’intolleranza al glutine, prima di eliminarlo dalla dieta, meglio andare da un gastroenterologo e farsi fare una visita in appropriata al caso”, consiglia la dottoressa Lee.

La quale per altro consiglia pure di concentrarsi meno sui prodotti confezionati senza glutine e di più su cibi integrali come frutta, verdura, fagioli e cereali integrali senza glutine e semi come amaranto, grano saraceno, quinoa, teff e miglio, perché “se si segue una dieta priva di glutine allora la dieta può essere incredibilmente sana” facendo le scelte giuste e controllando le etichette nutrizionali in cui ci siano livelli sufficienti di fibre e proteine ​​e un minimo di zuccheri aggiunti. E poi, cercare un pane con cereali integrali tra i primi ingredienti, che sono elencati in ordine decrescente in base al peso, in modo che il primo ingrediente sia sempre presente nella quantità maggiore…

AGI – Un’indagine Enit su 5.004 viaggiatori intervistati, rivela il livello di stima che i visitatori hanno per l’Italia anticipando flussi e tendenze 2023. La ricerca riguarda ben 12 Stati e 500 turisti potenziali per Paese coinvolto: Austria, Francia, Germania, Inghilterra, Olanda, Polonia, Spagna, Svezia, Svizzera e USA (NY e Miami).

La Penisola sembra non bastare mai: almeno il 20% di chi è stato in Italia negli ultimi 5 anni afferma di esserci stato almeno tre volte. In Austria e in Svizzera questa quota sale oltre il 30% mentre gli svedesi sono indietro per interesse tra i viaggiatori verso le destinazioni italiane, anche in termini di frequenza di visite.

A incidere soprattutto il fattore lontananza. Lo stile italiano è l’aspetto rimasto maggiormente impresso nei ricordi degli intervistati (43,4% dei casi), a seguire le bellezze naturalistiche e il patrimonio culturale (rispettivamente 38,9% e 32,8%). Ciò che invece non ha particolarmente stupito gli intervistati, sono i prodotti di lusso.

“Il 37,7% degli intervistati afferma di avere intenzione di venire in Italia nel 2023. Si registrerebbe, così, un aumento pari a circa l’8% rispetto al dato dell’ultimo quinquennio. In base alle previsioni, la platea dei turisti dovrebbe essere composta per il 14,6% da spagnoli, per il 12,7% da statunitensi e per il 12,3% e 12,2% da svizzeri e austriaci.

Il picco di turisti dovrebbe coincidere con la stagione estiva, che dovrebbe ospitare circa la meta’ del flusso complessivo” dichiara Ivana Jelinic ceo Enit. (AGI)Ila (Segue) (AGI) – Roma, 12 feb. – “Le destinazioni più scelte di gran lunga le località di mare (36,8%) e le città d’arte (31,7%); in particolare, Il 61,5% degli austriaci ha affermato di essere stato in una località balneare, dato che scende (46,8%) per svizzeri e per i tedeschi (41,8%).

Sulle città d’arte invece, il dato più elevato appartiene agli spagnoli, il 73% dei quali ha scelto di visitare una città d’arte, cosi’ come i francesi (57,4%) e gli statunitensi (44,4%)” spiega Sandro Pappalardo consigliere cda Enit.

Il 35% circa di chi ha viaggiato in Italia ha speso fra 500 e 1500 euro. Dallo studio Enit si nota una tendenza degli statunitensi a spendere molto più di ogni altro. Chi spende meno invece, proviene da Francia e Austria. “Stiamo puntando ad azioni specifiche di marketing che tengano conto del fatto che la stagione in cui l’Italia ha raccolto il maggior numero di visitatori è quella estiva, selezionata dal 68,7% dei partecipanti alla ricerca, così come occorre tener presente le differenze tra popolazioni: ad esempio gli austriaci tendono a visitare l’Italia più della media complessiva in estate” dichiara Maria Elena Rossi direttore marketing Enit.

Dalle ricerche condotte da Enit e Isnart-Unioncamere si evince un quadro di generale ripresa del settore in Italia che ha prodotto un impatto economico stimato complessivamente in 77 miliardi di euro, grazie alle spese sostenute da oltre 770 milioni di turisti, tra pernotti in strutture ricettive e alloggi in abitazioni private (seconde case, residenze di amici e parenti, appartamenti e camere in affitto). Rispetto al 2021, la crescita è del +16,7% per le presenze e del +17,4% per la spesa.

Nel 2022 il patrimonio naturalistico è la prima motivazione di vacanza, prendendo il posto del classico binomio Italia-arte, che “scende” in seconda posizione: il 18,1% degli italiani e il 22,4% degli stranieri si muovono per trascorrere una vacanza a contatto con la natura. “L’arte, la cultura e la storia d’Italia, comunque, rimangono un caposaldo della destinazione Italia, nel 2022 è tornata forte la voglia di scoprire musei e monumenti, di partecipare a concerti ed eventi locali.

Il turismo “post pandemico lascia più spazio alle piccole eccellenze del territorio, con gite ed escursioni alla scoperta di borghi e aree interne del Paese: un passo importante nell’obiettivo dell’ampliamento della stagione turistica destagionalizzazione e decongestione dei flussi” spiega Roberto di Vincenzo, presidente Isnart. Le imprese che puntano su servizi di qualità sono premiate da una clientela più “fedele”: la ricerca di Isnart rileva che quasi 1 turista su 2 torna sul luogo di vacanza e 1 su 10 lo fa per alloggiare nella struttura di fiducia.

La pandemia ha generato nuove modalità di trascorrere i soggiorni fuori casa e, grazie allo smartworking, 1 turista su 10 dichiara di aver coniugato lavoro e vacanza, con un probabile impatto in termini di allungamento del periodo di soggiorno.

Internet influenza più del passaparola e agisce su due fronti dello share of mind: consultato dagli indecisi, ma anche da chi ha le idee chiare su dove andare e vuole organizzare personalmente ogni particolare del viaggio. Nel 2022 le informazioni on line influenzano il 55% dei turisti (13,5% nel 2008), le offerte di portali e siti web il 41,8%, le recensioni on line il 13,3% e il tam tam dei i social network l’11,7% dei visitatori. 

AGI – Per un fumatore ci sono poche cose al mondo insopportabili quanto un volo aereo. Interminabili ore con il pensiero fisso di prendere tra le dita una sigaretta, accenderla e respirare a pieni polmoni. Ma si sa, a bordo di un aereo non è consentito. Pace. Ma la e-cigarettes proprio no. “E’ pulita, non inquina, non fa male ai vicini di posto”, ripete come un mantra tra sé il fumatore più incallito cercando la giustificazione a ciò che si sta per fare. E non si tratta di episodi disparati. Il numero di trasgressori è folto, soprattutto negli Stati Uniti. Su ogni volo l’annuncio prima del decollo ricorda ai passeggeri che il fumo di qualsiasi tipo è illegale a bordo degli aerei. Ma alcuni passeggeri preferiscono correre comunque il rischio, piuttosto che aspettare sofferenti il momento dell’atterraggio.

Nessuno sembra credere al rischio – seppur raro – di esplosione.  Eppure, solo pochi giorni fa batteria del vaporizzatore di un passeggero ha preso fuoco su un volo della United Airlines. Quattro assistenti di volo si sono recati in ospedale per precauzione. E il volo, diretto a Newark ha invertito la rotta ed è tornato a San Diego.

Secondo la Federal Aviation Administration, nel 2022 i vaporizzatori e le sigarette elettroniche sono stati la causa principale di incidenti con batterie al litio sugli aerei, prima di quelli causati da pacchi batteria e computer portatili. Dei 55 incidenti segnalati fino a settembre dello scorso anno, i vaporizzatori e le sigarette elettroniche sono stati 19, pari al 35% di tutti gli incidenti del 2022 e al triplo degli incidenti segnalati in tutto il 2019, secondo la FAA. Per ogni incidente documentato, altri non vengono segnalati: la FAA afferma che l’elenco dei problemi relativi alle batterie non è completo e i passeggeri ammettono che non sempre segnalano le trasgressioni dei loro compagni di posto. 

Ma perché accade? Se danneggiate o se i terminali della batteria vanno in cortocircuito, questi dispositivi possono esplodere. Esattamente come accade per le batterie degli smartphone e dei computer portatili. Nelle rare situazioni in cui le batterie si surriscaldano o prendono fuoco, gli assistenti di volo provvedono a mettere la sigaretta elettronica o il vaporizzatore in un sacchetto di contenimento termico.

Il governo federale ha vietato il fumo sulla maggior parte dei voli statunitensi nel 1990. Nel 2016, gli Stati Uniti ha vietato l’uso delle sigarette elettroniche su tutti i voli commerciali nazionali e sui voli internazionali da e per il Paese. 

Ma quali sono le leggi in Italia? L’uso delle sigarette elettroniche, comprese e-cigars e e-pipes e altri vaporizzatori personali, è vietato a bordo del velivolo. I dispositivi con batterie devono essere smontati ed essere protetti in sacchetti separati per impedire l’attivazione accidentale. Il trasporto è consentito nel bagaglio a mano ma non in stiva.

AGI – Il Metaverso? È un concetto che è arrivato “a significare molte cose”, scrive il Paìs che racconta una giornata trascorsa in questo mondo parallelo “generato dal computer a cui s’accede con occhiali per la realtà virtuale”.

I mondi? “Sono centinaia di scenari in cui puoi chattare, giocare, guardare spettacoli o semplicemente essere e mostrare che bevi qualcosa”, spiega il quotidiano, che ha “visitato piazze, città western, isole dove ti sparano, teatri, strade cittadine vuote, appartamenti e tanti altri set futuristici di cartapesta dove, in realtà, succede poco”.

O addirittura nulla, se è vero che “intorno alle 10 ora della penisola spagnola, che è la mattina presto negli Stati Uniti, non c’era nessuno, assolutamente nessuno, in nessuno dei mondi” che il Paìs ha visitato per noi.

Tutti i limiti

Come si sa, il Metaverso è stata una delle principali novità del 2020 e con i lockdown in seguito alla pandemia, un mondo virtuale in cui lavorare, incontrarsi o potersi divertire sembrava essenziale. Da allora, però il suo peso è diminuito. C’erano appena 280.000 utenti attivi nel metaverso per Meta entertainment, secondo quanto pubblicato dal Wall Street Journal, mentre “l’obiettivo dell’azienda era di arrivare a mezzo milione”, scrive il quotidiano madrileno.

Ma i limiti non finiscono qui, si sono almeno altri due problemi: da un lato, che la batteria degli oculos dura da una a due ore, a seconda dell’uso; d’altra parte, che le persone si stancano degli occhiali e lasciano alle prime battute, poco dopo aver fatto l’esperienza essenziale. Anzi, “il suo uso estensivo provoca stanchezza e qualche capogiro – racconta il cronista – cosicché le mie passeggiate nel Metaverso si sono rivelate dei momenti difficili perché avevo la testa pesante. C’è chi si siede e collega gli occhiali alla corrente per passare più ore, io non ce l’ho fatta”.

Nel Metaverso ci sono i tour, come in ogni mondo, si legge nel reportage, e il cronista scrive: “Sono in una piscina del metaverso e non posso uscire. Non c’è nessuna scala. Non so nemmeno nuotare. Abbasso lo sguardo e vedo il fondo, sono ancora a galla anche se non ho gambe e non tocco terra. È una sensazione spiacevole, ma non angosciante perché non sta realmente accadendo nulla”, anzi “nella piscina sono annegato”.

In conclusione? “È impossibile sapere oggi se nei prossimi anni ci saranno abbastanza persone interessate alla realtà virtuale per trasformarla in un business”, sentenzia il Paìs. 

AGI – C’è un effetto “isola di calore” nelle grandi città, scrive il Paìs. Che significa? Che l’asfalto e il cemento assorbono il calore durante il giorno e lo ributtano fuori durante la notte, rendendo così la temperatura molto più alta che nei luoghi adiacenti, dove predominano terra e alberi.

Fin qui niente di nuovo, solo che uno studio pubblicato sulla rivista Lancet proprio il primo febbraio che contiene i dati di 93 città europee, dove vivono 57 milioni di abitanti di età superiore ai 20 anni, “stima che circa 6.700 morti premature” siano dovute proprio al fenomeno delle “isole di calore” e sottolinea che un terzo di queste stessi decessi potrebbe essere evitato semplicemente piantando degli alberi nel 30% dello spazio urbano.

Però il quotidiano spiega anche che “è importante differenziare la mortalità attribuibile alle ‘ondate di caldo’, che possono interessare molti più luoghi, con quella legata alle ‘isole di calore’, che sono l’effetto della progettazione urbana” basata su “asfalto, cemento e mancanza di vegetazione che aumentano il rischio per la salute nelle giornate estive, anche con temperature normali”, puntualizzano i ricercatori.

Il modello della ricerca fornisce un risultato di morti premature legato all’aumento delle temperature negli ambienti urbani, il che rappresenta il 4,3% della mortalità totale durante i mesi estivi (da giugno ad agosto) e l’1,8% della mortalità durante tutto l’anno. Gli autori in ogni caso ritengono che un terzo di essi (circa 2.644 decessi) si sarebbe potuto evitare aumentando la copertura arborea fino al 30% dello spazio urbano, il che ridurrebbe le temperature in media di quasi mezzo grado, ma in alcuni punti anche di 1,5°C e forse persino di più. 

La superficie boschiva delle città analizzate è pari al 14,9%., ma in generale le città con i più alti tassi di mortalità per eccesso di calore si trovano in Europa meridionale e orientale, essendo quelle che beneficerebbero maggiormente di un aumento della copertura arborea. 

Secondo Tamara Iungman, ricercatrice presso L’IsGlobal, istituzione promossa dalla Fondazione La Caixa che ha condotto lo studio, Barcellona ad esempio ha solo l’8% di alberi e la mortalità prematura attribuita all’effetto isola di calore è del 14%, mentre Madrid, che ha il 9,5% della superficie boschiva, ha un tasso di mortalità di circa il 12% proprio per questo motivo.

Scrive ancora il Paìs che il documento analizza lo spazio urbano con immagini ad alta risoluzione (in aree di 250 metri per 250 metri) per tener conto anche della distribuzione della vegetazione. “È importante differenziare la mortalità attribuibile alle ‘ondate di caldo’, che possono interessare molti più luoghi, con quella legata alle ‘isole di calore’, che sono legate alla progettazione urbana: asfalto, cemento e la mancanza di vegetazione aumentano il rischio per la salute nelle giornate estive, anche con temperature normali”, puntualizzano i ricercatori.

L’idea del modello di riferimento pubblicata su Lancet è quella di offrire agli urbanisti e ai consiglieri locali strumenti per comprendere l’entità del problema e l’effetto positivo del cambiamento del modello urbano usuale con uno che contempli “più verde”.

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