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AGI – Una innovativa sonda ‘cerca-tumore’ migliora l’efficacia della chirurgia dei tumori neuroendocrini gastrointestinali. Lo dimostra uno studio clinico svolto da un team congiunto di medici, ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO), dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e di Sapienza Università di Roma, coordinato da Emilio Bertani della Divisione di Chirurgia dell’apparato digerente e direttore dell’Unita’ di Chirurgia dei tumori neuroendocrini dello Ieo, e Francesco Ceci Direttore della Divisione di Medicina Nucleare dello Ieo.

La sonda, oggetto dello studio, costituisce uno strumento innovativo in grado di rilevare i positroni, particelle emesse da radiofarmaci come quelli comunemente utilizzati per eseguire una diagnostica Pet. Il dispositivo, sviluppato da Infn e Sapienza, ha dimostrato un’elevata sensibilità nell’individuare cellule tumorali marcate con un radiofarmaco specifico per i tumori neuroendocrini.

Una capacità che rende la sonda efficace nel guidare la mano del chirurgo esattamente alla sede della lesione, per quanto microscopica o in una posizione difficile. Lo studio condotto in Ieo fra maggio 2022 e aprile 2023 su 20 pazienti ha infatti dimostrato che la nuova sonda è in grado rivelare le sedi di malattia con una sensibilità e specificità del 90%. Grazie all’impiego della sonda le operazioni chirurgiche, sia tradizionale che con robot, risulteranno quindi più precise e conservative, in quanto sarà possibile rilevare con grande precisione la presenza di tessuti da rimuovere, evitando al contempo asportazioni inutili.

Come funziona la sonda

In sintesi, la procedura prevede l’iniezione di una minima dose di radiofarmaco specifico per i tumori neuroendocrini che va selettivamente a posizionarsi sulle cellule tumorali. “La chirurgia radioguidata – spiegano Francesco Collamati dell’Infn e Riccardo Faccini di Sapienza Universita’ di Roma – fino ad oggi ha utilizzato le sonde a raggi gamma che non funzionano quando quello che si vuole rivelare è vicino a organi che assorbono molto radiofarmaco, come per esempio nell’addome. Una sonda come quella da noi ideata, che rivela i positroni anziché i fotoni, permette di rivelare esattamente specifiche forme di tumore in zone del corpo dove sarebbe altrimenti impossibile individuarle”.

Grazie alla collaborazione con Ieo, “siamo riusciti a validare per la prima volta la sonda durante interventi chirurgici”. Ideatore della possibilità di effettuare questa sperimentazione presso l’Ieo è stato Francesco Ceci, Direttore della Divisione di Medicina Nucleare, nonché uno dei maggiori esperti del settore.

“Da sempre il mio focus di ricerca è stata la Teranostica, quella disciplina che unisce la diagnostica di ultima generazione con le terapie di precisione. Quando sono venuto a conoscenza di questo dispositivo ho subito intuito le incredibili potenzialità ed è iniziata una proficua collaborazione con il dottor Collamati. La vera innovazione di questa procedura chirurgica risiede nel somministrare ai pazienti durante l’intervento lo stesso radiofarmaco cancro-specifico usato per la diagnostica PET: Prima individuiamo con la PET le localizzazioni del tumore e poi utilizziamo la sonda per rimuoverle con grande accuratezza. Diagnosi e terapia, le basi della Teranostica, questa volta applicate alla chirurgia” aggiunge.

“Ieo è sempre più vicino all’obiettivo ‘chirurgia di precisione’, capace di asportare niente di più e niente di meno di ciò che è necessario per guarire – spiega Emilio Bertani, chirurgo della Divisione di Chirurgia dell’apparato digerente e coordinatore dello studio clinico – anche il chirurgo più esperto in un caso su tre può lasciare della malattia residua, non visibile neppure alla Pet perche’ localizzata ad esempio nei piccoli linfonodi vicini ai vasi mesenterici. La sonda beta è in grado di rilevare anche la minima presenza di cellule tumorali e nell’ 80% dei casi il chirurgo riesce a rimuoverle senza creare danni eccessivi. Il punto forte della procedura è che bilancia la capacità di trovare la malattia e la necessita’ di preservare tessuti vitali per il paziente”.

“È importante ricordare che per i Tumori Neuroendocrini la chirurgia è l’unica forma di cura radicale – continua Bertani – purtroppo però fino al 30% delle laparotomie non arrivano a sterilizzare il letto tumorale e dunque a controllare il tumore. Le metastasi linfonodali si ripresentano nel 10% dei casi. La nuova sonda rappresenta quindi un grande progresso e una speranza nel trattamento dei Net anche se occorre sottolineare che ciò che cambia il risultato non è tanto la tecnologia quanto la procedura. La sonda è efficace soltanto se è in mano a un chirurgo esperto”.

“Gli eccellenti risultati ottenuti sui tumori neuroendocrini ci incoraggiano a estendere lo studio. È già in corso in Ieo uno studio nel carcinoma prostatico, e abbiamo in programma di applicare la procedura con la sonda beta anche ad altri tumori gastrointestinali e ai tumori ginecologici” conclude Ceci. 

AGI – Sviluppato un vaccino basato sull’mRNA che può efficacemente mirare e stimolare le risposte delle cellule immunitarie protettive contro il parassita Plasmodium, responsabile della malaria, in modelli preclinici. Il vaccino è stato realizzato dai ricercatori dell’Istituto di Ricerca Ferrier e del Malaghan Institute of Medical Research, entrambi facenti parte dell’Università di Wellington Te Herenga Waka in Nuova Zelanda, e dell’Istituto per l’Infezione e l’Immunità Peter Doherty in Australia.

“Grazie a questa sinergia, siamo stati in grado di progettare e convalidare un esempio di vaccino a base di mRNA che funziona generando cellule di memoria residenti nel fegato in un modello di malaria“, afferma Gavin Painter dell’Instituto di Ricerca Ferrier. “Questo dimostra l’enorme potenziale della tecnologia dell’RNA nella risoluzione di alcuni dei più grandi problemi di salute del mondo e la crescente capacità e competenza nello sviluppo di vaccini a base di mRNA qui in Nuova Zelanda e in Australia”.

Inizialmente, la ricerca collaborativa mirava a sviluppare vaccini basati su peptidi per la malaria. Tuttavia, nel 2018, il team ha cambiato approccio iniziando a indagare sui vaccini basati sull’RNA, una decisione che, finora, sembra aver dato i suoi frutti con il recente successo della tecnologia dell’RNA nello sviluppo dei vaccini.

Come funziona il vaccino

“Il nostro vaccino basato su peptidi per la malaria ha avuto successo e mirava solo a piccoli frammenti proteici di un proteina della malaria, mentre i vaccini a base di mRNA codificano un’intera proteina della malaria – spiega Lauren Holz dell’Universita’ di Melbourne, ricercatrice presso l’Istituto Doherty e co-autrice dello studio – questo è un vero punto di forza perché significa che possiamo generare una risposta immunitaria più ampia e, sperabilmente, più protettiva“.

Per aumentare ulteriormente l’efficacia del vaccino a base di mRNA, è stato combinato con un adiuvante – originariamente sviluppato presso gli Istituti Malaghan e Ferrier per immunoterapie contro il cancro – che mira e stimola le cellule immunitarie specifiche del fegato. Questo ingrediente aggiuntivo aiuta a localizzare la risposta del vaccino a base di RNA nel fegato, un sito chiave per prevenire lo sviluppo e la maturazione del parassita nel corpo.

“Quando il parassita entra per la prima volta nel flusso sanguigno, viaggia fino al fegato dove si sviluppa e matura prima di infettare le cellule del sangue, momento in cui compaiono i sintomi della malattia – aggiunge il dottor Mitch Ganley, ricercatore post-dottorato presso l’Istituto di Ricerca Ferrier e co-autore dello studio – a differenza del vaccino per Covid-19, che agisce neutralizzando gli anticorpi, il nostro approccio unico si basa su cellule T che svolgono un ruolo critico nell’immunità. In particolare, un tipo di cellula T chiamata cellula T di memoria residente nei tessuti, che arresta l’infezione da malaria nel fegato per fermarne completamente la diffusione                          “.

La dottoressa Holz afferma che il vantaggio chiave di questo vaccino è che non è influenzato dalla precedente esposizione alla malaria. “Un gran numero di vaccini contro la malaria sottoposti a prove hanno funzionato molto bene nei modelli animali o quando sono stati somministrati a persone che non avevano avuto la malaria in precedenza, ma non hanno avuto successo quando somministrati a persone che vivono in regioni endemiche per la malaria. Al contrario, il nostro vaccino è ancora in grado di generare cellule immunitarie protettive specifiche del fegato e fornire protezione anche quando i modelli animali sono stati pre-esposti alla malattia”, dice la dottoressa Holz. Il team di ricerca sta ora lavorando per portare il vaccino agli studi clinici sull’uomo, un processo che si prevede richiedera’ diversi anni. La ricerca e’ stata pubblicata su Nature Immunology.

AGI – Anche se il numero di procedure di cardiologia interventistica è in aumento, i livelli di accesso alle terapie sono ancora inadeguati rispetto ai fabbisogni epidemiologici. Così solo poco più di 4 italiani candidabili su 10 hanno avuto accesso nel 2022 alla procedura di impianto percutaneo transcatetere della protesi valvolare aortica (TAVI) e solo 2 su 10 beneficia della procedura di riparazione percutanea della valvola mitralica.

Questi sono alcuni dei dati relativi raccolti ed elaborati dagli esperti della Società Italiana di Cardiologia Interventistica (GISE), l’unica realtà italiana dotata di un Registro dell’attività di 273 Laboratori di emodinamica e cardiologia interventistica italiani.

Il Report è stato discusso a Roma, presso il ministero della Salute, durante il congresso GISE Think Heart. Altrettanto scarso è l’accesso a procedure di intervento mini-invasive per la prevenzione dell’ictus. Infatti solo al 2% degli italiani potenzialmente candidabili alla procedura di chiusura percutanea dell’auricola sinistra ne ha beneficiato.

Parliamo di pazienti che non possono assumere, in alternativa, anticoagulanti orali (indicati in chi soffre di fibrillazione atriale non valvolare); mentre solo 1/3 dei pazienti candidabili all’intervento percutaneo di chiusura del forame ovale pervio (PFO) ne ha beneficiato; infine solo l’1% ha avuto accesso al trattamento percutaneo dell’embolia polmonare (PE), che consente di rimuovere il coagulo di sangue grazie a un intervento mininvasivo che aiuta a risolvere i casi più seri e ad alto rischio con controindicazione alla trombolisi.

Il ministro Schillaci 

 “Il Report di GISE – commenta il ministro della Salute, Orazio Schillaci – rappresenta uno strumento importante per disporre di dati utili a migliorare la programmazione e l’assistenza. La sinergia isituzionale è una leva essenziale per accelerare il processo di efficientamento del servizio sanitario nazionale in un’ottica di maggiore resilienza e sostenibilità che il Ministero della Salute è impegnato a portare avanti. Le innovazioni scientifiche e tecnologiche in questo senso giocano un ruolo fondamentale soprattutto per superare le disuguaglianze ancora esistenti e fare in modo che tutti i cittadini possano accedervi. Su questo anche GISE con il suo contributo può costituire un valido alleato”.

Angioplastica, TAVI, riparazione della valvola mitrale e gli interventi mini-invasivi di prevenzione dell’ictus, come la chiusura dell’auricola sinistra e la chiusura del PFO hanno raggiunto e hanno addirittura superato i livelli pre-Covid, ad esclusione dell’angioplastica.

Il numero di Tavi eseguite 

Nel 2022 per esempio sono state eseguite 11.476 TAVI a fronte delle 10.103 registrate nel 2021 e delle 6.888 del 2018 o delle 8.255 del 2019. Gli interventi di riparazione della valvola mitrale sono state 1.451 nel 2022 a fronte dei 1.325 del 2021 e 1.105 del 2018 o 1.224 del 2019.

Le procedure di chiusura dell’auricola sinistra eseguite nel 2022 sono state 1.878, quando nel 2021 erano 1.561 e nel 2018 solo 989. Allo stesso modo gli interventi di chiusura del PFO eseguiti nel 2022 sono stati 3.978 a fronte dei 3.608 dell’anno prima e ai 3.192 del 2018.

Discorso a parte per le angioplastiche: 149.993 quelle eseguite nel 2022 a fronte delle 158.689 del 2018 e 160.018 del 2019.

In Italia poca innovazione nell’interventistica cardiovascolare 

“Dal confronto con il panorama internazionale appare evidente come in Italia la penetrazione di alcune importanti innovazioni scientifiche e tecnologiche nel campo dell’interventistica cardiovascolare risulti inadeguata sia in termini di numero di pazienti trattati rispetto al fabbisogno, sia di disomogeneità tra le varie aree geografiche del Paese”, commenta Giovanni Esposito, Presidente GISE e Direttore della UOC di Cardiologia, Emodinamica e UTIC dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II di Napoli.

“Uno dei principali obiettivi istituzionali di GISE è quello di presentare un piano di azione concreto che ci consenta di garantire l’accesso su tutto il territorio nazionale a cure ormai ritenute standard secondo le raccomandazioni delle principali linee guida internazionali.

Questo documento – continua – è incentrato su 4 principali ambiti di cura dell’interventistica cardiovascolare: il trattamento transcatetere della stenosi valvolare aortica, la riparazione percutanea della valvola mitrale, la prevenzione dell’ictus cardio-embolico mediante chiusura percutanea dell’auricola sinistra nei pazienti con fibrillazione atriale non valvolare e l’ottimizzazione della rivascolarizzazione coronarica con ausilio dello studio funzionale delle lesioni coronariche.

Lo scopo del documento è quello di descrivere il profilo clinico e l’impatto economico delle suddette metodiche, le attuali barriere cliniche, organizzative e gestionali per l’accesso alle cure sul territorio nazionale e le possibili soluzioni per il superamento di suddette barriere”.

Fondamentale è anche la collaborazione tra GISE e AGENAS. “I nostri obiettivi comuni sono molti e diversi – spiega Esposito -: dal miglioramento dei flussi informativi e all’introduzione di soluzioni evolute volte all’assistenza dei pazienti affetti da malattie cardiovascolari; dallo sviluppo di indicatori di esito e di processo in grado di cogliere in modo più puntuale l’appropriatezza, l’efficacia e la qualità delle cure, nonché l’efficienza dei processi alla valorizzazione dei dati dei registri clinici per approfondimenti specifici su ambiti assistenziali di interesse cardiologico; fino alla valutazione dell’impatto di procedure interventistiche sugli outcome, anche al fine di identificare potenziali fattori di rischio modificabili, e all’elaborazione di documenti di indirizzo evidence-based su ambiti di incertezza clinica”.

Le sfide del futuro

Continua Esposito: “Ci attendono sfide importanti per il prossimo futuro. La sostenibilità e la resilienza del sistema sanitario passa inevitabilmente dalla capacità di programmare correttamente le risorse, garantire l’utilizzo delle tecnologie che permettono non solo il miglioramento degli outcome clinici ma anche di rispondere ai bisogni del sistema nel suo complesso.

È diventato quant’ormai urgente affrontare e risolvere il problema della scarsità di personale e di strutture per fare fronte al maggior carico assistenziale seguito alla pandemia (es. liste attesa, mancate diagnosi).

Infine riteniamo che una corretta rilevazione di indicatori di processo, organizzativi e di outcome saranno fondamentali per la programmazione delle attività e la valutazione multidisciplinare delle tecnologie che aumentano la capacità del sistema e che saranno fondamentali per vincere queste sfide”.

Conclude il direttore generale di AGENAS Domenico Mantoan: “Come noto l’Agenzia, su mandato del Ministero della Salute, realizza e aggiorna annualmente il Programma nazionale per la valutazione dei processi e degli esiti dell’assistenza sanitaria (PNE). Il PNE, nella sua veste di osservatorio permanente sull’efficacia, l’appropriatezza clinico-organizzativa e l’equità di accesso alle cure, rappresenta un importante punto di riferimento per tutti i professionisti del Servizio Sanitario Nazionale.

Nell’ambito del PNE, da diverso tempo si è intensificato il dialogo con il mondo scientifico, grazie alla sottoscrizione di specifici accordi di collaborazione e ricerca. In particolare, con GISE è stata sottoscritta una convenzione volta a sviluppare metodologie di analisi delle performance assistenziali, anche attraverso l’integrazione di dati clinici con le informazioni desunte dai sistemi informativi sanitari.

Specifica attenzione è riservata alla valutazione di impatto delle procedure interventistiche sulle valvole cardiache, anche in ragione del fatto che a tutt’oggi non è possibile distinguere dai dati della scheda di dimissione ospedaliera (SDO) gli interventi cosiddetti open da quelli per via transcatetere (TAVI). A tal proposito, sono allo studio specifiche proposte per la revisione delle linee guida per la codifica della SDO”. 

AGI – Il latte materno di ogni madre produce una combinazione unica di anticorpi che rimane stabile sia durante l’allattamento che nel corso delle diverse gravidanze. A rivelarlo, uno studio del Journal of Experimental Medicine dell’Università della Scuola di Medicina di Pittsburgh.

Poiché l’immunità precoce di un bambino è generata dagli anticorpi presenti nel latte materno, la nuova ricerca fornisce informazioni su perché la protezione contro diverse infezioni varia tra i neonati e su perché alcuni sviluppano una grave malattia intestinale chiamata enterocolite necrotizzante (NEC).

“Sebbene ogni donatrice di latte nel nostro studio avesse profili di anticorpi molto diversi tra loro, abbiamo scoperto che gli anticorpi della stessa donatrice erano piuttosto simili nel tempo, anche nel corso di mesi”, ha dichiarato l’autore principale Timothy Hand, professore associato di pediatria e immunologia presso la Scuola di Medicina di Pittsburgh e l’Ospedale Pediatrico UPMC di Pittsburgh.

“Ciò significa che se uno dei genitori di un bambino manca di determinati anticorpi, come quelli che proteggono dalla NEC, il bambino non riceverà mai tale immunità. Questo potrebbe spiegare perché alcuni bambini sviluppano la NEC e altri no”.

Perchè alcuni bambini si ammalano di Nec

Secondo Hand, la NEC è una devastante malattia infiammatoria dell’intestino che colpisce principalmente i neonati prematuri. La NEC, che è stata associata a una famiglia di batteri chiamati Enterobacteriaceae, si verifica circa 2-4 volte più frequentemente nei neonati alimentati con latte artificiale rispetto a quelli allattati al seno.

Prima che il sistema immunitario dei bambini si sviluppi completamente, essi sono protetti dai batteri dannosi grazie agli anticorpi trasferiti attraverso la placenta materna e il latte materno.

Questi anticorpi si legano ai batteri nell’intestino, impedendo loro di invadere l’organismo. In uno studio precedente, Hand e il suo team hanno scoperto che nei campioni fecali di bambini sani, la maggior parte degli Enterobacteriaceae era legata agli anticorpi materni.

Diverse madri trasmettono diversi anticorpi 

Al contrario, nei neonati che hanno sviluppato la NEC, c’erano più batteri che sfuggivano al legame con gli anticorpi. Hand sospettava che le differenze nell’immunità dei bambini alla NEC fossero dovute al fatto che diverse madri trasmettono diversi anticorpi, e il nuovo studio conferma questa ipotesi.

Hand e il suo team hanno analizzato il latte materno donato dall’Istituto di Scienza e Biobanca del Latte Materno di Pittsburgh e dalla Biorepository di Ricerca sul Latte Materno di San Diego. Utilizzando un’ampia varietà di batteri, hanno misurato a quali ceppi di batteri si legavano gli anticorpi di ciascuna donatrice.

“I profili di anticorpi delle singole donatrici erano completamente diversi, come ci aspettavamo ma che abbiamo potuto dimostrare per la prima volta”, ha affermato Hand.

Le madri che partoriscono prematuramente hanno gli stessi anticorpi di chi partorisce a termine 

“Durante la gravidanza, i linfociti B si spostano dall’intestino alla ghiandola mammaria, dove iniziano a produrre anticorpi. La madre cerca di proteggere il suo bambino utilizzando gli anticorpi che lei stessa usa per proteggere il suo intestino. Le donne hanno vissuto vite diverse, hanno microbiomi diversi e hanno affrontato diverse infezioni; quindi, ha perfettamente senso che gli anticorpi nel latte materno riflettano tale variabilità”.

Durante il periodo dell’allattamento, il latte materno della madre passa da un colostro altamente concentrato e ricco di proteine al latte maturo. Per capire se anche la composizione degli anticorpi cambia, Hand e il suo team hanno confrontato il latte materno delle stesse donatrici nel tempo e tra diverse gravidanze. “Non solo gli anticorpi erano simili tra le donatrici durante una singola gravidanza, ma erano anche notevolmente stabili tra i diversi bambini”, ha detto Hand.

“Questo suggerisce che quando i linfociti B arrivano nel tessuto mammario, non se ne vanno. Questo è importante per capire come i bambini acquisiscono l’immunità e come affrontano le infezioni”.

I ricercatori si sono anche chiesti se gli anticorpi nel latte materno fossero diversi se la donatrice partoriva prematuramente. “Alcuni linfociti B si spostano nella ghiandola mammaria durante il terzo trimestre di gravidanza, quindi ci siamo chiesti se una persona che partorisce prima del completamento di questo trimestre avesse meno anticorpi nel latte”, ha detto Hand.

“La buona notizia è che non abbiamo trovato differenze: le persone che partoriscono prematuramente hanno tanti anticorpi e la stessa diversità di coloro che partoriscono a termine”.

Il latte materno è il miglior alimento per evitare la più grave malattia intestinale 

Altre ricerche indicano che il latte materno della madre è il miglior alimento per ridurre la probabilità che un neonato prematuro sviluppi la NEC. Tuttavia, se questo non è disponibile, il latte donato è un’importante alternativa o supplemento. Questo latte viene sterilizzato per uccidere i batteri, ma non è stato ancora testato se questo processo influisca anche sugli anticorpi.

Hand e il suo team hanno scoperto che la pastorizzazione riduce i livelli di anticorpi nel latte donato. Sebbene ciò significhi probabilmente che i bambini alimentati con latte donato ricevono meno anticorpi rispetto a quelli che bevono direttamente il latte materno, Hand ha dichiarato che sono necessarie ulteriori ricerche per capire quali livelli di anticorpi siano protettivi contro malattie come la NEC.

In futuro, una migliore comprensione dei batteri specifici che sono più pericolosi per i neonati prematuri a rischio di NEC potrebbe aiutare i ricercatori a sviluppare anticorpi che potrebbero essere aggiunti alle formule artificiali o al latte materno per potenziare l’immunità.

AGI –  Sono stati rilevati sempre più rischi per la salute legati all’uso di sigarette elettroniche che rendono necessari ulteriori studi sull’impatto a lungo termine che queste possono avere su cuore e polmoni. È quando si legge nell’articolo scientifico dell’American Heart Association, pubblicata oggi sulla rivista dell’associazione, ‘Circulation’.

Il rapporto intitolato ‘Impatto cardiopolmonare delle sigarette elettroniche e dei prodotti per lo svapò descrive nel dettaglio i dati e le tendenze di utilizzo più recenti, identifica gli attuali impatti sulla salute, evidenzia le prove scientifiche di base e cliniche esistenti relative alle sigarette elettroniche e raccomanda le priorità di ricerca per comprendere ulteriormente gli effetti sulla salute a lungo termine dell’uso di sigarette elettroniche.

I prodotti per il vaping, noti anche come sigarette elettroniche, sono sistemi alimentati a batteria che riscaldano una soluzione liquida, o e-liquid, per creare un aerosol che viene inalato nei polmoni.

e-liquid fornisce nicotina e altre sostanze a rischio 

La maggior parte delle formulazioni di e-liquid fornisce nicotina, che ha effetti negativi sulla salute e forti proprietà di dipendenza. I prodotti possono contenere anche altre sostanze, più comunemente il tetraidrocannabinolo, l’elemento psicoattivo della cannabis, nonchè metanfetamina, metadone o vitamine.

I liquidi includono anche umettanti, vettori igroscopici come il glicole propilenico e il glicerolo vegetale, che agiscono come solventi e creano un aerosol o un vapore d’acqua, aromi, agenti refrigeranti come il mentolo e dolcificanti, oltre ai metalli della bobina di riscaldamento e ad altre sostanze chimiche.

“Le sigarette elettroniche immettono nell’organismo numerose sostanze potenzialmente dannose, tra cui essenze chimiche e altri composti che probabilmente non sono conosciuti o compresi dall’utente”, ha dichiarato Jason J. Rose, presidente volontario del comitato di redazione della dichiarazione scientifica, professore associato di medicina e preside associato per l’innovazione e lo sviluppo scientifico dei medici presso la University of Maryland School of Medicine di Baltimora.

Rischio aumento della pressione e della frequenza cardiaca 

“Alcune ricerche indicano che le sigarette elettroniche contenenti nicotina sono associate a cambiamenti acuti in diverse misure emodinamiche, tra cui aumenti della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca”, ha detto Rose.

“Ci sono ricerche che indicano che, anche quando non è presente la nicotina, gli ingredienti delle sigarette elettroniche, in particolare gli aromi, comportano rischi associati a malattie cardiache e polmonari negli animali – ha continuato Rose – gli effetti negativi delle sigarette elettroniche sono stati dimostrati da studi in vitro e da studi su individui esposti alle sostanze chimiche presenti nei prodotti disponibili in commercio”, ha spiegato.

Uso sigarette elettroniche raddoppiato in due anni 

Il numero di persone che utilizzano sistemi elettronici di somministrazione della nicotina, tipicamente indicati come sigarette elettroniche, è cresciuto in modo esponenziale, soprattutto tra i giovani e i giovani adulti. L’uso di sigarette elettroniche è più che raddoppiato dal 2017 al 2019 tra gli studenti delle scuole medie e superiori.

L’articolo cita dati che dimostrano che quasi 3 giovani su 4 che utilizzano le sigarette elettroniche dichiarano di utilizzare esclusivamente prodotti aromatizzati. 

Molto popolari tra i giovani 

Questo alto tasso di utilizzo da parte dei giovani rende fondamentale la valutazione degli effetti sulla salute a breve e a lungo termine di questi prodotti. I giovani sono spesso attratti dagli aromi disponibili in questi prodotti e possono sviluppare una dipendenza da nicotina a causa dell’uso delle sigarette elettroniche; c’è una notevole preoccupazione per i giovani che pensano che le sigarette elettroniche non siano dannose perchè sono ampiamente disponibili e commercializzate per una fascia d’età che comprende molte persone che non hanno mai usato prodotti del tabacco”, ha detto Rose.

Sconosciuti i rischi a lungo termine

“I rischi a lungo termine dell’uso delle sigarette elettroniche sono sconosciuti, ma se i rischi dell’uso cronico sono simili a quelli delle sigarette a combustione, o anche se questi sono ridotti ma ancora presenti, potremmo non osservarli per decenni – ha precisato – altrettanto preoccupante è il fatto che gli studi dimostrano che alcuni giovani che usano le sigarette elettroniche passano all’uso di altri prodotti del tabacco e che esiste una correlazione tra l’uso di sigarette elettroniche e i disturbi da uso di sostanze”.

Inoltre, nel 2016, i dati del Behavioral Risk Factor Surveillance System indicavano che circa 1,2 milioni di adulti negli Stati Uniti, che non avevano mai fumato sigarette combustibili, stavano attualmente utilizzando sigarette elettroniche.

“Poichè le sigarette elettroniche e gli altri sistemi di vaping sono entrati in commercio negli Stati Uniti solo da circa quindici anni, non disponiamo ancora di informazioni sufficienti sui loro effetti a lungo termine sulla salute, per cui dobbiamo affidarci a studi a più breve termine, a esperimenti molecolari e alla ricerca sugli animali per cercare di valutare il rischio reale dell’uso delle sigarette elettroniche”, ha aggiunto Jason Rose.

“È necessario ampliare questo tipo di ricerca poichè l’adozione delle sigarette elettroniche è cresciuta in modo esponenziale, soprattutto tra i giovani, molti dei quali potrebbero non aver mai usato sigarette a combustione”, ha concluso. 

AGI – L’aspartame è stato classificato come possibilmente cancerogeno per l’uomo e la dose giornaliera consentita per ridurre l’incidenza del rischio è di 40 mg/kg di peso corporeo. Lo dice un rapporto dell’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e del Comitato congiunto di esperti sugli additivi alimentari dell’Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura, che è stato pubblicato oggi.

Che cos’è l’aspartame?

L’aspartame è un dolcificante artificiale ampiamente utilizzato in vari prodotti alimentari e bevande, a partire dagli anni ’80, tra cui bevande dietetiche, gomme da masticare, gelatina, gelati, prodotti lattiero-caseari come lo yogurt, cereali per la colazione, dentifricio e farmaci come gocce per la tosse e vitamine masticabili. La presenza dell’aspartame in numerosi prodotti alimentari di tipo industriale sviluppa oggi un business da 12 miliardi di euro nel mondo. È quanto emerge da una analisi della Coldiretti diffusa in occasione della valutazione che ha definito il dolcificante come potenzialmente cancerogeno.

Riconoscibile nelle etichette dei prodotti dalla sigla E951 – spiega Coldiretti – l’aspartame è usato come dolcificante artificiale nei prodotti dietetici anche se nel corso degli anni è stato al centro di numerosi dubbi che hanno messo in discussione la capacità di tali alimenti di far perdere peso nonché di polemiche sui potenziali rischi legati al suo consumo esponendo consumatori meno attenti, spesso i più piccoli, a effetti cumulativi.

I rischi e benefici dell’aspartame

“È diffusa l’idea che consumare dolcificanti possa portare un beneficio, per esempio al controllo dell’obesità, però non è così; a lungo termine non c’è un non c’è un apporto positivo dettato dal consumo dei dolcificanti contenuti in questi alimenti”, ha dichiarato Francesco Branca direttore del Dipartimento della nutrizione e sicurezza alimentare dell’OMS. “Il cancro è una delle principali cause di morte a livello globale; ogni anno, 1 persona su 6 muore di cancro; la scienza è in continua espansione per valutare i possibili fattori iniziali o facilitanti del cancro, nella speranza di ridurre questi numeri e il tributo umano; a tal proposito è stato condotto lo studio sull’aspartame”, ha continuato Branca.

La IARC ha classificato l’aspartame come possibilmente cancerogeno per l’uomo, sulla base di prove limitate per il cancro nell’uomo, in particolare, per il carcinoma epatocellulare, che è un tipo di cancro al fegato. Il JECFA ha concluso che i dati valutati non indicano ragioni sufficienti per modificare la dose giornaliera accettabile precedentemente stabilita a 40 mg/kg di peso corporeo per l’aspartame.

“La dose giornaliera consigliata dell’assunzione di aspartame, che è di circa 40 mg per kg di peso corporeo, cioè di 2800 mg per un individuo di 70 kg, riduce notevolmente il rischio di cancro a livelli minimi ma non lo porta a zero”, ha commentato Branca. “I consumatori occasionali di prodotti che contengono dolcificanti hanno sicuramente un rischio molto basso anche se non nullo, quelli che si avvicinano a questo limite di sicurezza destano maggiore preoccupazione”, ha affermato Branca.

“Consumi piuttosto elevati di bevande contenenti l’aspartame possono essere rischiosi; considerando il contenuto, per esempio nelle bevande gassate, dove a seconda del prodotto, una lattina può contenere dai 200 a 300 mg, è ritenuto pericoloso il consumo di oltre 9 lattine al giorno, circa 3 litri di bevande”, ha precisato Branca. I dubbi e le preoccupazioni su un dolcificante artificiale come l’aspartame, in commercio da quaranta anni, devono indurre i consumatori alla prudenza e al rispetto dei limiti indicati riguardo al suo consumo.

“La maggior parte dei consumatori si mantiene abbastanza al di sotto del limite stabilito ma quello che ci sentiamo di raccomandare come OMS è di limitarne i consumi”, ha raccomandato Branca. “Il consiglio – ha spiegato Coldiretti – è quello di preferire al suo posto zuccheri naturali, dal miele allo zucchero fino alla stevia, mentre per i prodotti industriali sono preferibili quelli contenenti fruttosio, che è lo zucchero naturale della frutta”. “Le valutazioni sull’aspartame hanno indicato che, sebbene la sicurezza non rappresenti una preoccupazione importante nelle dosi comunemente utilizzate, sono stati descritti effetti potenziali che devono essere indagati con studi più approfonditi e di migliore qualità”, ha concluso Branca. (AGI)

AGI – Parrucchiere, estetiste e contabili hanno una maggiore probabilità di ammalarsi di cancro ovarico. Lo dimostra lo studio dell’Università di Montréal in Canada, pubblicato su Occupational & Environmental Medicine. Anche chi lavora nei settori della vendita, della vendita al dettaglio, dell’abbigliamento e dell’edilizia può sviluppare una vulnerabilità maggiore a questo tipo di patologia.

In particolare, un’elevata esposizione a particolari agenti, tra cui il talco, l’ammoniaca, i gas propellenti, la benzina e le candeggine, possono avere un ruolo importante nell’insorgenza della malattia. Sono stati identificati pochi fattori di rischio modificabili per il cancro ovarico. I fattori ambientali, compresi quelli associati al luogo di lavoro, possono aumentarne l’incidenza.

Pochi studi, sino ad ora, hanno valutato i rischi professionali affrontati dalle donne e spesso, non hanno tenuto conto di fattori potenzialmente influenti come la storia lavorativa precedente, o hanno incluso un numero relativamente basso di partecipanti, limitandone così i risultati. Per fornire un’analisi completa e dettagliata, i ricercatori hanno attinto all’anamnesi lavorativa di uno studio caso-controllo basato sulla popolazione.

L’analisi esplorativa è stata condotta su due dimensioni dell’ambiente di lavoro, quali l’impiego in un particolare ruolo o settore e le esposizioni a specifici agenti. Sono state incluse, nella ricerca, tutte le partecipanti allo studio PRevention of OVArian Cancer in Quebec, di età compresa tra i 18 e i 79 anni, reclutate in sette ospedali di Montreal tra il 2010 e il 2016, dopo aver ricevuto una diagnosi di tumore ovarico epiteliale. In totale, 491 di queste donne che soddisfacevano i criteri di inclusione per lo studio sono state abbinate per età e distretto elettorale a 897 donne in salute.

Sono state raccolte informazioni sul retroterra sociodemografico, anamnesi medica, farmaci prescritti, storia riproduttiva, peso e altezza, fattori di stile di vita e storia lavorativa di tutte le partecipanti. La ricerca ha mostrato che un numero maggiore di donne con tumore ovarico aveva un livello di istruzione più basso, faceva un uso ridotto di contraccettivi orali e non aveva figli o ne aveva di meno rispetto alle donne del gruppo di confronto.

Per ogni lavoro svolto per almeno 6 mesi, le partecipanti hanno riportato il titolo del lavoro, le date di inizio e fine, l’orario di lavoro, compresi i turni, e le principali mansioni svolte. La durata cumulativa dell’impiego in un mestiere o in un settore è stata poi classificata secondo la durata, distinguendo in meno o più di 10 anni. Per calcolare l’impatto sulle partecipanti di specifici agenti presenti sul posto di lavoro, è stata utilizzata la matrice canadese di esposizione al lavoro, CANJEM, ed è stata, poi, valutata la relazione tra l’esposizione a ciascuno dei 29 agenti più comuni e il rischio di cancro ovarico.

Dopo aver tenuto conto dei fattori potenzialmente influenti, i risultati hanno rivelato che diversi ambiti lavorativi possono essere collegati a un rischio maggiore nel contrarre la malattia. In particolare, al lavorare per 10 o più anni come parrucchiera o estetista è stato associato un rischio tre volte maggiore di cancro ovarico, mentre all’impiego per 10 o più anni nella contabilità è stato associato un rischio doppio e al lavoro nell’edilizia un rischio quasi triplo.

Allo stesso tempo, al lavoro a lungo termine nell’industria dell’abbigliamento, compreso il ricamo, è stato associato un rischio maggiore dell’85% di sviluppare la malattia, mentre al lavoro nelle vendite o nel commercio al dettaglio sono stati associati rischi maggiori, rispettivamente, del 45% e del 59%. Un’incidenza più elevata, di oltre il 40%, è stata osservata nelle esposizioni cumulative elevate di 8 o più anni, rispetto a nessuna, a 18 agenti diversi, tra cui, talco, ammoniaca, perossido di idrogeno, polvere di capelli, fibre sintetiche, fibre di poliestere, coloranti e pigmenti organici, cellulosa, formaldeide, gas propellenti, sostanze chimiche presenti in natura nella benzina e candeggine.

“Parrucchiere, estetiste e coloro che lavorano in settori affini sono più frequentemente esposte a 13 agenti, tra cui ammoniaca, perossido di idrogeno, tinture e pigmenti organici e candeggine, e talco”, hanno sottolineato gli autori. “I risultati suggeriscono che l’occupazione in determinate professioni e l’esposizione a specifiche sostanze possono comportare un aumento del fattore di rischio di cancro ovarico”, hanno precisato gli autori.

“La ricerca ci ricorda che, sebbene sia stata riconosciuta da tempo la scarsa rappresentanza delle donne negli studi sul cancro occupazionale, e in effetti scarseggino anche le potenziali strategie per affrontare questo problema, c’è ancora bisogno di migliorare lo studio sui rischi professionali che corrono donne”, hanno commentato le dottoresse Melissa Friesen e Laura Beane Freeman del National Cancer Institute statunitense. 

AGI – Prendersi cura dei propri denti può essere collegato a una migliore salute del cervello. Lo dimostra lo studio della Tohoku University di Sendai in Giappone, pubblicato su Neurology, la rivista medica dell’American Academy of Neurology.

La ricerca ha rilevato che le malattie gengivali e la perdita dei denti sono collegate a una riduzione del cervello nell’area dell’ippocampo, che svolge un ruolo nella memoria e nell’incidenza della malattia di Alzheimer.

Le malattie gengivali e il potenziale legame con la demenza 

Lo studio non dimostra che i disturbi gengivali o la perdita dei denti causino il morbo di Alzheimer, ma solo un’associazione. “La perdita dei denti e le malattie gengivali, che sono infiammazioni del tessuto intorno ai denti che possono causare il restringimento delle gengive e l’allentamento dei denti, sono molto comuni, quindi valutare un potenziale legame con la demenza è incredibilmente importante”, ha detto Satoshi Yamaguchi, della Tohoku University di Sendai in Giappone e autore dello studio.

“I risultati della ricerca hanno rivelato che queste condizioni possono avere un ruolo nella salute dell’area cerebrale che controlla il pensiero e la memoria, dando alle persone un altro motivo per prendersi cura dei propri denti”, ha continuato Yamaguchi.

L’esperimento condotto su un gruppo di persone 

Lo studio ha coinvolto 172 persone con un’età media di 67 anni che non avevano problemi di memoria. I partecipanti sono stati sottoposti a esami dentali e a test di memoria all’inizio dello studio. Sono state, inoltre, eseguite delle scansioni cerebrali per misurare il volume dell’ippocampo all’inizio dello studio e di nuovo quattro anni dopo.

Per ogni partecipante, i ricercatori hanno contato il numero di denti e controllato la presenza di malattie gengivali, osservando la profondità del sondaggio parodontale, una misura del tessuto gengivale. I valori sani vanno da uno a tre millimetri.

Una gengivite lieve comporta una profondità di sondaggio di tre o quattro millimetri in diverse aree, mentre una gengivite grave comporta una profondità di sondaggio di cinque o sei millimetri in diverse aree, oltre a una maggiore perdita ossea, e può causare l’allentamento e la caduta dei denti.

I ricercatori hanno scoperto che al numero di denti e alla quantità di malattie gengivali erano collegati cambiamenti nell’ippocampo sinistro del cervello. Per le persone con malattie gengivali lievi, la presenza di un minor numero di denti è stata associata a un più rapido tasso di contrazione cerebrale nell’ippocampo sinistro.

Non solo conservazione 

Tuttavia, negli individui con gravi problemi gengivali, avere più denti è stato affiliato a un tasso più rapido di contrazione cerebrale nella stessa area del cervello. I ricercatori hanno, poi, scoperto che per le persone con gengivite lieve, l’aumento del tasso di contrazione cerebrale dovuto all’ assenza di un solo dente, equivaleva a quasi un anno di invecchiamento cerebrale.

Per le persone con gengivite grave, l’aumento della contrazione cerebrale, dovuto a un dente in più, equivaleva a 1,3 anni di invecchiamento cerebrale. “Questi risultati evidenziano l’importanza di preservare la salute dei denti e non solo di conservarli”, ha detto Yamaguchi.

“Gli esiti della ricerca suggeriscono che alla conservazione dei denti con gravi malattie gengivali è associata all‘atrofia cerebrale”, ha continuato Yamaguchi. “Controllare la progressione della malattia gengivale attraverso regolari visite odontoiatriche è fondamentale, e i denti con gravi malattie gengivali potrebbero dover essere estratti e sostituiti con dispositivi protesici appropriati”, ha specificato Yamaguchi. 

AGI –  Il caldo record che investirà da oggi l’Italia, con diverse città che vedranno la colonnina salire sopra i 40, rappresenta un serio pericolo per la salute umana, specie per soggetti più fragili come anziani, bambini e cittadini con patologie preesistenti. Lo affermano gli esperti della Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima) che lanciano oggi l’allarme circa le ripercussioni delle temperature elevate sul corpo umano.

“Il caldo eccessivo determina problemi sanitari in quanto può alterare il sistema di regolazione della temperatura corporea – afferma il presidente Sima, Alessandro Miani – Il corpo umano si raffredda attraverso la sudorazione, ma in determinate condizioni ambientali questo non è sufficiente: una umidità eccessiva impedisce al sudore di evaporare, con il calore corporeo che aumenta rapidamente e può arrivare a danneggiare organi vitali e il cervello.

Temperature eccessivamente elevate – prosegue Miani – possono provocare disturbi lievi come crampi, svenimenti, edemi, ma anche problemi gravi, dalla congestione alla disidratazione, aggravando le condizioni di salute di persone con patologie croniche preesistenti”. 

I disturbi legati al caldo 

Nello specifico, tra i disturbi legati al caldo, i più frequenti sono: Insolazione: determina eritemi o ustioni anche accompagnate da una sintomatologia analoga al colpo di calore; Crampi: dolori fisici causati da una perdita di sodio dovuto alla sudorazione e a una conseguente modificazione dell’equilibrio idrico-salino; Edema: causato da una ritenzione di liquidi negli arti inferiori come conseguenza di una vasodilatazione periferica prolungata;

Congestione: causata dall’assunzione di bevande ghiacciate in un organismo surriscaldato, i sintomi sono costituiti da sudorazione e dolore toracico; Disidratazione: sintomi principali sono sete, debolezza, vertigini, palpitazioni, ansia, pelle e mucose asciutte, crampi muscolari, abbassamento della pressione arteriosa;

Colpo di calore: si verifica quando la fisiologica capacita’ di termoregolazione è compromessa e si manifesta con una ampia gradazione di segni e sintomi a seconda della gravità della condizione.

Il primo sintomo è rappresentato da un improvviso malessere generale, cui seguono mal di testa, nausea, vomito e sensazione di vertigine, fino ad arrivare a stati d’ansia e stati confusionali.

I consigli pratici 

La Società Italiana di Medicina Ambientale diffonde inoltre una guida con i consigli pratici per difendersi dal caldo: – Evitare di esporsi al caldo e al sole diretto e uscire di casa solo nelle ore più fresche – Assicurare un adeguato ricambio di aria in casa e agevolare la ventilazione naturale – Mantenere le stanze fresche schermando le finestre esposte al sole (utilizzando tapparelle, persiane, tende, ecc.) – Chiudere le finestre durante il giorno e aprirle durante le ore più fresche della giornata (la sera e la notte) –

Fare bagni e docce frequenti e con acqua tiepida – Assumere almeno 3 litri di acqua durante la giornata, evitare alcolici e preferire cibi che contengono molta acqua, come frutta e verdura – Quando si esce di casa, proteggere gli occhi con occhiali da sole e prevenire scottature con creme solari ad alto fattore protettivo – Evitare l’attività sportiva all’aperto nelle ore più calde. 

AGI – L’aspartame, il più famoso dolcificante artificiale, l’”anti-zucchero” per eccellenza (è 200 volte più dolce dello zucchero naturale) sul banco degli imputati. La prossima settimana la Iarc, l’agenzia dell’Oms per la ricerca sul cancro, potrebbe inserirlo nella lista delle sostanze a rischio, e la notizia ha creato un comprensibile clamore: non parliamo solo del dolcificante nel caffè al posto del cucchiaino di zucchero, ma di miliardi di bibite dolci, gasate e non, dolciumi e quant’altro.

Ma se il rischio cancro è ancora da appurare, e necessiterà sicuramente di ulteriori approfondimenti, la scienza è già ragionevolmente certa di una cosa: l’aspartame e in genere i dolcificanti non solo non danno dei vantaggi sul piano della perdita di peso, ma presentano anche dei rischi per la salute, dal diabete a problemi cardiovascolari. Ne parla con l’AGI Francesco Branca, direttore del dipartimento Nutrizione e Sicurezza degli alimenti dell’Oms, che il 12 maggio ha varato le nuove linee guida sull’uso dei dolcificanti.

I dolcificanti non fanno dimagrire 

“Già nel 2015 – racconta – redigendo le linee guida sul consumo di zucchero, ci siamo chiesti se fosse una buona pratica sostituirlo con i dolcificanti. Esaminando gli studi scientifici è emerso appunto che non danno benefici”.

Non è, comunque, un attacco dell’Oms ai dolcificanti, tiene a precisare Branca: “Vogliamo solo dare dei segnali, avvertire che i consumi vanno controllati. C’è un grandissimo utilizzo di questi prodotti, e sta aumentando. Alcuni Paesi, come il Messico, mettono un segnale di alert sull’etichetta, altri come il Cile valutano di inserire tra gli alimenti da non promuovere quelli che contengono i dolcificanti.

Responsabilizzare i produttori 

E’ utile intervenire a livello normativo quindi, e agire sulla responsabilità dei produttori, che vengono consultati prima di elaborare questo genere di documenti, affinchè abbassino i livelli. Ma anche, ovviamente, su quella dei consumatori. Occorre modificare sia i consumi che la composizione dei prodotti”.

La via maestra, secondo Branca, è una: “Abbassare il sapore dolce. Ci abituiamo fin da bambini a un gusto forse anche eccessivamente dolce, le aziende mettono in commercio prodotti accattivanti, appaganti, che diano il massimo di soddisfazione possibile. Basterebbe abituarsi a gusti più naturali come quello della frutta”.

Gli interventi, insomma, devono essere su più piani, a monte e a valle, e sempre a tutela della salute dei cittadini: è il caso del documento, varato proprio ieri dal dipartimento Nutrizione e Sicurezza degli alimenti dell’Oms, che invita a regolare il marketing di prodotti alimentari (bibite, merendine ecc.) per gli under 18: sono pubblicità, spiega Branca, “molto pervasive, molto efficaci, con strumenti sempre più nuovi, anche digitali.

Ridurre la pubblicità di bibite e merendine 

Inducendo a consumi non responsabili da parte dei bambini. Anche qui, purtroppo la sola campagna di sensibilizzazione che fa leva sull’azione volontaria non basta, servono interventi normativi, sulla base del profilo nutrizionale degli alimenti, servono strumenti di controllo per ridurre l’esposizione dei bambini a questo tipo di marketing. Solo 20 Paesi hanno già misure in tal senso, l’Italia ha scelto l’approccio volontario”.

Tra le misure possibili per contrastare l’avanzata di quello che una volta era definito ‘junk food’, cibo spazzatura, che poi in realtà riguarda le componenti di questi alimenti, ci sono le etichette nutrizionali: “La nostra raccomandazione generale – sottolinea Branca – è un’etichettatura ben visibile, comprensibile a tutti i consumatori. Un modello che si e’ dimostrato efficace a modificare i consumi e’ quello del Cile, dove in etichetta mettono degli esagoni neri che segnalano ‘troppi grassi’, o ‘troppi zuccheri’ ecc”.

L’aspartame potrebbe finire tra gli alimenti cancerogeni

“Le strade sono molte – prosegue Branca – dal marketing ai luoghi dove questi prodotti vengono offerti, fino alla possibilità di aumentare i prezzi dei cibi più pericolosi per la salute”. La prossima settimana, oltre all’attesa decisione della Iarc se inserire o no l’aspartame tra gli alimenti potenzialmente cancerogeni, è attesa anche l’uscita delle nuove linee guida del dipartimento Oms diretto da Branca sulla corretta alimentazione, “in particolare sul consumo di carboidrati e grassi.

Ma il lavoro non si ferma – spiega Branca – e ci occuperemo ancora di carne, pesce, prodotti lattiero-caseari, ma anche dei prodotti ad alto grado di trasformazione.

Un lavoro enorme, che peraltro, assicura l’esperto Oms, “viene fatto anche tenendo conto delle ripercussioni sul piano economico e sociale dei documenti che vengono prodotti su alimenti che hanno mercati globali enormi. Facciamo analisi di contesto, sentiamo le imprese, abbiamo un quadro a 360 gradi. Ma la priorità, sempre, è la salute pubblica, questo è importante”.

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