AGI – “Solo perché la cannabis viene legalizzata – in realtà penso che dovrebbe esserlo – non significa che non ci sia alcun danno associato”, dichiara al New York Times la dottoressa Ayana Jordan, professoressa di Psichiatria presso la NYU Langone Health. Il quotidiano si chiede: come si fa a capire che si è dipendenti dalla cannabis?
Nonostante quel che si pensa, “e persone possono diventare dipendenti dalla cannabis “proprio come nel caso di altre droghe, come con l’alcol o la cocaina”, scrive il giornale. Via via che gli Stati legalizzano l’erba, sempre più persone ne fanno uso, tant’è che secondo il National Survey on drug use and health nel 2021 circa il 19% degli americani di età pari o superiore a 12 anni usava cannabis e quasi il 6% degli adolescenti e degli adulti si qualificava come “affetto da disturbo da uso di cannabis”, che è poi anche la terminologia medica della dipendenza. Per fare un parallelismo, “quasi l’11% degli americani d’età superiore agli 11 anni soffre di disturbi da consumo di alcol”.
E se dal un lato si avvisa che le potenziali conseguenze sugli effetti da uso di cannabis “non sono così gravi come con altre droghe (gli oppiacei)”, dove le morti per overdose sono frequenti, tuttavia la dipendenza da cannabis “può causare una drastica diminuzione della qualità della vita“, ha affermato la dott.ssa Christina Brezing, assistente di Psichiatria alla Columbia University. Quindi ecco cosa è meglio sapere.
I sintomi da dipendenza
Secondo la quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali dell’Associazione Psichiatrica Americana sono 11 i criteri che generalmente rientrano in quattro gruppi di sintomi. Essi riguardano la “perdita del controllo” che produce conseguenze anche di tipo interpersonale (isolamento sociale, conflitti, inadempienza agli obblighi sociali e di lavoro) con effetti di un “uso rischioso” che induce a mettersi in situazioni potenzialmente pericolose e produce effetti di sindrome di astinenza.
Ci sono poi alcuni “fattori di rischio” che possono aumentare la probabilità di sviluppare un disturbo da uso di cannabis, specie se si inizia con l’assumere la cannabis da adolescenti.
Il quotidiano Usa sottolinea che non ci sono farmaci approvati per il trattamento del disturbo da uso di cannabis, ma gli psichiatri a volte prescrivono farmaci che possono aiutare “ad alleviare i sintomi di astinenza, tra cui mancanza di appetito e insonnia”. Poi si interviene con trattamenti terapeutici che inducono ad aumentare le motivazioni personali antidoping affrontando le cause scatenanti che inducono al consumo di cannabis.
Secondo il Cdc, il Centre for Disease Control and Prevention “persone che fanno uso di marijuana “svilupperanno un disturbo da uso di marijuana, il che significa che non sono in grado di smettere di usare marijuana anche se sta causando problemi di salute e sociali nelle loro vite”. Tant’è che uno studio ha stimato che circa 3 persone su 10 che fanno uso di marijuana “hanno un disturbo indotto” dal suo uso mentre un altro studio ha stimato che le persone che fanno uso di cannabis “hanno circa il 10% di probabilità di diventare dipendenti”. Anche l’età in cui si inizia conta molto ai fini della dipendenza.
AGI – L’importanza dei mattoncini Lego nella scienza dell’alimentazione. Potrebbe essere riassunta così l’importante recente scoperta: un team di scienziati della Pennsylvania State University e dell’Università dell’Alabama ha pubblicato uno studio che descrive l’utilizzo dei mattoncini Lego “per risolvere uno dei problemi più grandi della carne coltivata in laboratorio: la sua consistenza”.
Nel darne notizia, il mensile gourmet Gambero Rosso sottolinea come nel corpo di un animale, le cellule muscolari, adipose e del tessuto connettivo “crescono tutte insieme in un ambiente strutturato” per cui in un laboratorio, “ogni elemento della carne deve essere coltivato separatamente e successivamente combinato”. Quindi, senza una spina dorsale strutturale, “queste cellule crescono come una massa amorfa”. Ecco dunque perché “è necessaria un’impalcatura”, una struttura per fornire una base su cui tutti gli elementi “possano crescere insieme come farebbero naturalmente”.
L’impalcatura si chiama, appunto, Lego. Attraverso i mattoncini colorati e un motore Lego Power Funtions “è stato costruito un dispositivo” che serve a trasformare “le fibre di amido in una robusta rete” su cui poi può “moltiplicarsi la carne coltivata in laboratorio”. Nello spiegare il procedimento, il Gambero sottolinea che l’amido oggi per gli scienziati che si stanno avvicinando al tema “rappresenta un’impalcatura commestibile ed economica”. L’unico vero problema è che queste fibre di amido devono essere estremamente piccole per poter essere utilizzate nella carne coltivata. E per ridurre le fibre a una dimensione ideale, “viene utilizzato un dispositivo chiamato elettrospinner, abitualmente utilizzato per nylon e plastica, non per l’amido”. Ma affinché il processo di elettrofilatura abbia successo, parte del dispositivo “deve essere posto in una soluzione umida di acqua e alcool”.
Ma qui è anche sorto il problema principale. Perché in genere, gli elettrofilatori sono realizzati in metallo, “ma questo aveva bisogno di un materiale che non fosse conduttore elettrico” e la soluzione è stata costruire l’elettrospinner in plastica. Ecco, dunque, il perché sono stati utilizzati i mattoncini Lego e un motore del set Lego Power Functions.
Da qui il successo nella fase sperimentale, ora il problema sarà affrontare quella industriale e quindi elettrospinner in plastica e i mattoncini dovranno essere ridimensionati e sostituiti con qualcosa di più strutturato.
Ma senza i Lego non si sarebbero ottenuti i risultati fin qui raggiunti.
AGI – Quattromila passi al giorno tolgono il medico di torno. Lo stabilisce un nuovo studio realizzato da un team di scienziati guidato da Maciej Banach, professore di cardiologia preventiva presso l’Accademia medica di Lodz in Polonia, il quale ha analizzato 17 studi che hanno seguito più di 200.000 persone per una media di poco più di sette anni. I risultati di questa nuova ricerca sono stati pubblicati mercoledì sull’European Journal of Preventive Cardiology.
Nel riferirne, il Washington Post sottolinea che se “10 mila passi è un obiettivo di fitness comune”, tuttavia “non esistono prove scientifiche che sia il numero ideale per tutti”. Quattromila passi, invece, solo la soglia minima per “significativi benefici per la salute”. Anzi, a dir il vero, l’analisi ha dimostrato che i benefici “sono iniziati a circa 2.300 passi al giorno”, il che è stato associato a una significativa “riduzione del rischio di morte per malattie cardiovascolari” mentre con 4 mila passi “anche il rischio di morire per qualsiasi motivo ha diminuisce in modo rilevante”. Tutt’e due le cifre sono indicatori medi di benessere, ma secondo i medici al di sotto dei 5 mila passi viene considerato “uno stile di vita sedentario”.
Insomma, per stare bene non bisogna necessariamente fare sforzi sovraumani. Ci si può accontentare anche di un numero di passi inferiore ai diecimila, l’obiettivo dei più. E questo è un atto di incoraggiamento e speranza per la maggioranza di quanti cercano di raggiungere il limite ideale dei 10 mila passi. Tuttavia, una cosa è certa: ogni mille passi aggiuntivi si ha “una riduzione del 15% del rischio di morte” qualunque sia il motivo mentre con soli 500 passi in più al giorno “la riduzione è pari al 7%”. Di contro, l’insufficiente attività fisica “è il quarto principale fattore di rischio di morte” in tutto il mondo, rappresentando circa 3,2 milioni di decessi all’anno, secondo quanto stabilito dall’Organizzazione mondiale della sanità.
E la mitica cifra dei 10 mila passi da dove esce? Secondo il Post, che si attribuisce il perito di averlo in precedenza segnalato, “il consiglio di puntare a fare 10.000 passi ogni giorno non è supportato da dati scientifici oggettivi, ma è il frutto di una strategia di marketing giapponese che utilizzava un nome tradotto liberamente come ‘misura da 10.000 passi” per vendere contapassi”. Così, alla fin fine la soglia dei diecimila è rimasta un obiettivo da raggiungere “per soddisfare le proprie esigenze d’esercizio” per mantenersi in forma.
AGI – Bere kombucha, un tipo di tè fermentato, può ridurre i livelli di zucchero nel sangue nei pazienti con diabete di tipo II. Lo dimostra lo studio clinico condotto dai ricercatori della Georgetown University’s School of Health, della University of Nebraska Lincoln e della MedStar Health, riportato su Frontiers in Nutrition.
Le persone con diabete di tipo II che hanno bevuto la bevanda fermentata kombucha per quattro settimane hanno registrato livelli di glucosio nel sangue, a digiuno, più bassi rispetto a quando hanno consumato una bevanda placebo dal gusto simile.
Questo risultato, ottenuto da uno studio pilota che ha coinvolto 12 partecipanti, indica il potenziale intervento dietetico della bevanda per aiutare ad abbassare i livelli di zucchero nel sangue nelle persone affette da diabete e pone le basi per uno studio più ampio che confermi ed espanda queste evidenze.
Cos’è il Kombucha
Il kombucha è un tè fermentato con batteri e lieviti e veniva consumato già nel 200 a.C. in Cina, ma è diventato popolare negli Stati Uniti solo negli anni Novanta. La sua popolarità è stata sostenuta da affermazioni aneddotiche sul miglioramento dell’immunità e dell’energia e sulla riduzione del desiderio di cibo e di infiammazioni, ma la prova di questi benefici è stata, finora, limitata.
“Alcuni studi di laboratorio su roditori, relativi ai benefici del kombucha, si sono rivelati promettenti e un piccolo studio su persone senza diabete ha mostrato che il kombucha abbassava la glicemia, ma, questo è il primo studio clinico che esamina gli effetti del tè kombucha in persone con diabete”, ha affermato Dan Merenstein, professore di Scienze Umane presso la Georgetown School of Health, di medicina di famiglia presso la Georgetown University School of Medicine e autore dello studio.
“Devono essere condotte molte altre ricerche, ma i risultati sono molto promettenti”, ha specificato Merenstein. “Un punto di forza del nostro studio è che le persone non sono state indirizzate su cosa mangiare, in quanto abbiamo usato un disegno incrociato che ha limitato gli effetti di qualsiasi variabilità nella dieta del soggetto un esame”, ha continuato Merenstein.
Le caratteristica dello studio
Il disegno, usato dai ricercatori, prevedeva che un gruppo di persone bevesse circa otto once di kombucha o di placebo al giorno per quattro settimane e poi, dopo un periodo di due mesi, necessario per rimuovere gli effetti biologici delle bevande, il kombucha e il placebo sono stati scambiati tra i partecipanti per altre quattro settimane.
A nessuno dei due gruppi è stato detto quale bevanda stessero ricevendo in quel momento. Dopo quattro settimane, il kombucha sembrava aver abbassato i livelli medi di glucosio nel sangue a digiuno da 164 a 116 milligrammi per decilitro, mentre la differenza dopo quattro settimane con il placebo non era statisticamente significativa.
Le linee guida dell’American Diabetes Association raccomandano che i livelli di zucchero nel sangue prima dei pasti siano compresi tra 70 e 130 milligrammi per decilitro. Gli scienziati hanno, poi, esaminato la composizione dei microrganismi fermentanti nel kombucha per determinare quali ingredienti potessero essere i più attivi e hanno scoperto che la bevanda era composta principalmente da batteri dell’acido lattico e dell’acido acetico e una forma di lievito, chiamata Dekkera, con ogni microbo presente in misura circa uguale; la scoperta è stata confermata dal sequenziamento del gene RNA.
Il kombucha utilizzato in questo studio è stato prodotto da Craft Kombucha, un produttore commerciale dell’area di Washington. “Studi svolti su marche diverse di kombucha rivelano miscele e abbondanze microbiche leggermente differenti”, ha detto Robert Hutkins, dell’University of Nebraska Lincoln e autore senior dello studio.
“Tuttavia, i batteri e i lieviti principali sono altamente riproducibili e probabilmente simili dal punto di vista funzionale tra marche e lotti; ciò è stato un fattore rassicurante per la nostra ricerca”, ha continuato Hutkins. “Si stima che 96 milioni di americani soffrano di prediabete e che il diabete stesso sia l’ottava causa di morte negli Stati Uniti, oltre a essere un importante fattore di rischio per malattie cardiache, ictus e insufficienza renale”, ha spiegato Chagai Mendelson, autore principale che ha lavorato nel laboratorio di Merenstein alla Georgetown mentre completava la sua specializzazione al MedStar Health.
“Siamo stati in grado di fornire prove preliminari che una bevanda comune potrebbe avere un effetto benefico sul diabete”, ha proseguito Mendelson. “Ci auguriamo che possa essere intrapreso uno studio molto più ampio, basato sugli esiti di questa sperimentazione, per dare una risposta più definitiva all’efficacia del kombucha nel ridurre i livelli di glucosio nel sangue, e quindi prevenire o aiutare a trattare il diabete di tipo II”, ha concluso Mendelson.
AGI – Il numero di ragazze con diagnosi pubertà precoce è aumentato durante la pandemia Covid-19. A dirlo, uno studio condotto dall’Università di Genova e dall’Istituto Gaslini, finanziato dal Ministero della Salute italiano. Le cause? Potenziali fattori di rischio come l’eccessivo tempo trascorso davanti alla TV, smartphone e ad altri schermi e la ridotta attività fisica, secondo lo studio pubblicato nel Journal of the Endocrine Society.
Le ragazze iniziano a sviluppare cambiamenti fisici prima dei 8 anni, come gemme di seno nelle ragazze e testicoli più grandi nei ragazzi. La pandemia di Covid-19 è stata anche collegata a malattie endocrine come l’obesità, che è un noto contributore alla pubertà precoce nelle ragazze. “Il nostro studio conferma l’aumento delle diagnosi di pubertà precoce durante il Covid-19 e identifica fattori che contribuiscono come cattive abitudini alimentari e poco esercizio fisico, troppo tempo davanti allo schermo e disturbi del sonno”, ha affermato l’autore dello studio Mohamad Maghnie dell’Università di Genova e Istituto Giannina Gaslini di Genova.
“Abbiamo riscontrato un aumento di peso tra le ragazze con diagnosi di pubertà precoce durante la pandemia e un rapido aumento del peso corporeo è associato a uno sviluppo puberale avanzato”. I ricercatori hanno valutato l’incidenza della pubertà precoce prima e dopo la pandemia di Covid-19 in 133 ragazze italiane.
Hanno anche esaminato la possibile relazione tra Covid-19 e i cambiamenti dello stile di vita legati alla pandemia. Hanno trovato 72 casi di pubertà precoce prima della pandemia di COVID-19 (gennaio 2016-marzo 2020) e 61 casi tra marzo 2020 e giugno 2021. Ciò equivale a quattro nuovi casi al mese. I ricercatori hanno anche scoperto che le ragazze con diagnosi di pubertà precoce durante la pandemia di Covid-19 tendevano ad avere punteggi di indice di massa corporea (BMI) più elevati rispetto alle ragazze che non lo avevano. Queste ragazze hanno trascorso in media 2 ore al giorno utilizzando dispositivi elettronici e l’88,5% di loro ha interrotto qualsiasi attività fisica.
“Il ruolo dello stress, l’isolamento sociale, l’aumento dei conflitti tra i genitori, lo stato economico e l’aumento dell’uso di disinfettanti per mani e superfici rappresentano potenzialmente ulteriori ipotesi interessanti sul motivo per cui la pubertà precoce stia aumentando nei giovani”, ha affermato Maghnie. “Sebbene, la conseguenza dell’adattamento biologico non possa essere completamente esclusa”.
AGI – La crescita dei tumori e la metastasi possono essere efficacemente inibite tramite l’uso di un anticorpo monoclonale terapeutico chiamato NP137, come dimostrano due studi pubblicati su Nature. La ricerca è stata condotta su modelli murini di cancro dell’endometrio e del cancro della pelle. Inoltre, un trial clinico di fase 1, il primo nel suo genere, ha testato l’agente in individui affetti da cancro dell’endometrio avanzato, ottenendo risultati promettenti e indicando la necessità di ulteriori approfondimenti su questa strategia anti-tumorale.
Gli studi hanno anche rivelato nuove informazioni sulla transizione epiteliale-mesenchimale (EMT), un cambiamento cellulare associato allo sviluppo, alla progressione, alla metastasi e alla resistenza alle terapie chemioterapiche e immunoterapiche nei tumori. Inibire questa transizione potrebbe rappresentare un approccio promettente alla terapia del cancro.
Una proteina chiamata netrina-1 è nota per essere sovraespressa in alcuni tumori, con un ruolo suggerito nello sviluppo dei tumori stessi. I due nuovi studi dimostrano che bloccare questa proteina può inibire la transizione epiteliale-mesenchimale. Agnès Bernet, Patrick Mehlen e i loro colleghi della Universitè de Lyon in Francia hanno dimostrato che la netrina-1 è sovraespressa nel cancro dell’endometrio umano. Nei modelli murini della malattia, bloccare l’attività della netrina-1 ha indotto la morte delle cellule tumorali e inibito la transizione epiteliale-mesenchimale.
Sulla base di questi risultati, gli autori hanno esaminato il potenziale di NP137, un anticorpo monoclonale che blocca la netrina-1, in uno studio clinico di fase 1 che ha coinvolto 14 pazienti con cancro dell’endometrio avanzato. Il trattamento si è dimostrato sicuro e ha portato a risposte anti-tumorali in nove pazienti; l’8% dei pazienti ha avuto una stabilizzazione della malattia e in un paziente, le metastasi al fegato sono diminuite di oltre il 50%. Nei modelli murini, l’efficacia dei farmaci chemioterapici convenzionali (carboplatino e paclitaxel) è migliorata quando combinata con NP137.
In uno studio separato, Cèdric Blanpain e i suoi colleghi della Universitè Libre de Bruxelles (ULB) hanno dimostrato che l’inibizione mediata da NP137 della netrina-1 ha ridotto la proporzione di cellule che subiscono la transizione epiteliale-mesenchimale in un modello murino di carcinoma a cellule squamose. Il trattamento ha ridotto il numero di metastasi e aumentato la sensibilità del tumore alla chemioterapia.
Gli autori hanno anche valutato il trattamento su cellule tumorali umane trapiantate nei topi, dimostrando che l’inibizione della netrina-1 inibisce la transizione epiteliale-mesenchimale in queste cellule. Complessivamente, i risultati suggeriscono che le terapie che inibiscono la netrina-1 potrebbero essere utilizzate per superare la resistenza ai trattamenti nel cancro.
AGI – Si chiama Ibris (Innovative BioRobotic artIficial organS) e ha come obiettivo quello di sviluppare una nuova generazione di organi artificiali impiantabili in grado di sostituire le funzionalità degli organi naturali compromessi.
E’ il nuovo progetto coordinato da Arianna Menciassi, docente di bioingegneria industriale e prorettrice della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, che ha ricevuto un contributo complessivo di 1,5 milioni di euro dal Fondo italiano per la scienza (Fis), il nuovo programma di finanziamento del ministero dell’Università e della ricerca per valorizzare la ricerca italiana.
Ibris è uno degli otto progetti selezionati nella linea ‘Grant Advanced‘ delle Scienze Fisiche e Ingegneristiche (su oltre duecento progetti presentati) e avrà una durata di 60 mesi. “L’idea di sostituire alcune funzionalità compromesse degli organi umani impiantando sistemi artificiali non è nuova, ma veri sistemi impiantabili hanno capacità limitate”, spiega Arianna Menciassi.
Gli organi artificiali che Ibris intende sviluppare avranno capacità di attuazione, sensing e consapevolezza dell’ambiente in cui saranno impiantati. Il progetto partirà da due casi studi – il sistema urinario e il cuore – per poi allargare il raggio d’azione anche su altri organi impiantabili.
“Con Ibris – continua Menciassi – vogliamo cambiare il paradigma e lavorare su tutti quegli aspetti scientifici e tecnologici che impediscono adesso di impiantare totalmente e per anni un organo artificiale: dai problemi di alimentazione a quelli di controllo, di attuazione, di dimensioni e biocompatibilità. Una sfida importante, che può essere affrontata con un approccio robotico e bioingegneristico, come dimostrato da alcuni risultati preliminari ottenuti negli anni”.
AGI – Uno scanner a ultrasuoni indossabile potrebbe rilevare prima il cancro al seno. Lo dimostra lo studio dell’Istituto di tecnologia del Massachusettse dell’Università tecnologica di Xi’an, pubblicato su Science Advances. I ricercatori hanno sviluppato un nuovo cerotto piezoelettrico a ultrasuoni in grado di rilevare anomalie del tessuto mammario di circa 3 millimetri di larghezza.
Il patch mammario a ultrasuoni consente una scansione precisa e non invasiva del tessuto mammario profondo. “Il dispositivo indossabile, che si adatta facilmente a superfici ampie e curvilinee, potrebbe consentire un nuovo approccio non invasivo e di facile utilizzo per la diagnosi precoce del cancro al seno”, ha spiegato Wendy Du dell”Istituto di tecnologia del Massachusettse.
Gli approcci tradizionali per la diagnosi del tumore al seno prevedono, in genere, tecniche costose e invasive, alcune delle quali espongono le pazienti a radiazioni nocive. L’ecografia è un’alternativa comune, ma le procedure di diagnosi rimangono macchinose e complesse. Gli scienziati hanno esplorato l’elettronica a ultrasuoni che utilizza materiali piezoelettrici estensibili e conformabili per una varietà di applicazioni di monitoraggio della salute indossabili, per l‘imaging del seno.
I dispositivi di scansione piezoelettrici devono essere ottimizzati per bilanciare l’estensibilità e la deformabilità con la capacità di produrre immagini stabili e di alta qualità, un compito difficile per superfici ampie e curvilinee. Per affrontare questa sfida, i ricercatori hanno sviluppato un patch mammario indossabile con trasduttore a ultrasuoni 1D phased array, realizzato con materiali cristallini piezoelettrici, in grado di produrre scansioni precise e profonde del tessuto mammario con un tracker mobile, tecnologia che serve a monitorare le attività, in modo da carpire informazioni e raccogliere dati da cui trarre vantaggio.
Il dispositivo, applicato a un reggiseno in tessuto morbido, contiene un design a nido d’ape con quindici sezioni esagonali che forniscono struttura e flessibilità e guidano un tracker collegato che attraversa il patch lungo percorsi specifici. Il tracker è in grado di ruotare di 360 gradi, producendo immagini su ampie aree e da diverse angolazioni. I ricercatori hanno testato il dispositivo su una donna con una storia di cisti al seno e hanno provato che questo era in grado di rilevare cisti di circa 3 millimetri, un risultato promettente per la potenziale individuazione di tumori al seno in fase iniziale. “Questo lavoro è il pioniere di una tecnologia a ultrasuoni sul corpo, prima nel suo genere, per l’imaging e lo screening del tessuto mammario e rappresenta un nuovo metodo non invasivo per monitorare i cambiamenti dinamici del tessuto mammario”, hanno concluso gli autori.
AGI – Un nuovo studio sul ceppo di influenza A responsabile della pandemia H1N1 del 2009, noto come pdm09, ha rivelato che il virus si è trasferito dagli esseri umani ai suini circa 370 volte dal 2009 a oggi. La successiva circolazione del virus nei suini ha portato all’evoluzione di varianti di pdm09 che sono poi passate nuovamente dagli suini agli esseri umani. Questi risultati sono stati presentati da Alexey Markin del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti – Servizio di Ricerca Agricola e dai suoi colleghi nell’articolo scientifico pubblicato sulla rivista open-access PLOS Pathogens.
L’influenza A può causare l’influenza negli esseri umani, negli uccelli, nei suini e in alcuni altri mammiferi. Nel 2009 e nel 2010, una pandemia causata da pdm09 ha provocato migliaia di morti umane in tutto il mondo. Da allora, come dimostrato in studi precedenti, pdm09 è passato ripetutamente dagli esseri umani ai suini, e la circolazione del virus tra i suini ha portato a cambiamenti evolutivi in pdm09 che potrebbero renderlo più incline a trasmettersi nuovamente agli esseri umani.
Per comprendere meglio questo rischio, i ricercatori hanno analizzato i dati sulla trasmissione di pdm09 tra il 2009 e il 2021. Hanno anche indagato su come questi eventi interspecifici possano aver influenzato la diversità genetica del virus nei suini e il rischio di successiva infezione umana. L’analisi ha dimostrato che, dal 2009, pdm09 si è trasferito dagli esseri umani ai suini circa 370 volte, con la maggior parte di questi eventi verificatisi quando il carico di pdm09 era più elevato tra gli esseri umani. Nel 2020 e nel 2021, durante la pandemia di COVID-19, la circolazione di pdm09 tra gli esseri umani è diminuita, ma la circolazione di pdm09 è continuata nei suini a seguito di circa 150 trasmissioni da esseri umani a suini tra il 2018 e il 2020.
I ricercatori hanno scoperto che la maggior parte degli eventi di trasmissione da esseri umani a suini erano isolati, ma alcuni hanno portato a una circolazione sostenuta di diverse linee genetiche di pdm09 tra i suini negli Stati Uniti. Queste varianti in circolazione tra i suini sembravano essere corrispondenze genetiche scarse rispetto ai vaccini umani stagionali, suggerendo che i vaccini avrebbero fornito scarsa protezione contro di esse.
L’analisi ha anche mostrato che la persistente circolazione di pdm09 tra i suini è stata associata ad almeno cinque casi di trasmissione da suini a esseri umani. Questi risultati si aggiungono all’aumento di prove che gestire l’infezione da influenza A nelle persone che lavorano con i suini può aiutare a prevenire la trasmissione ai maiali e ridurre successivamente il rischio di diffusione agli esseri umani. Gli autori aggiungono: “Il controllo dell’infezione da virus dell’influenza A negli esseri umani può ridurre al minimo il passaggio dei virus ai suini e ridurre la diversita’ dei virus che circolano nelle popolazioni suine. Limitare la diversità del virus nei suini può ridurre al minimo l’emergenza di nuovi virus e il potenziale trasferimento di virus dell’influenza A dai suini agli esseri umani”.
AGI – Un nuovo studio basato sui dati di più di 60.000 pazienti ha individuato i trattamenti più efficaci contro l’acne. Nella loro meta-analisi – che comprende 221 studi controllati randomizzati che hanno coinvolto 65.601 pazienti – pubblicata su “The Annals of Family Medicine” i ricercatori, guidati dal National Taiwan University Hospital, Taiwan, hanno studiato l’efficacia di varie terapie farmacologiche per l’acne vulgaris in diversi gruppi di età e sesso.
Lo studio ha rivelato che l’isotretinoina per via orale è il trattamento più efficace, seguita in efficacia da una tripla terapia contenente un antibiotico topico, un retinoide topico e perossido di benzoile (BPO).
Per le monoterapie oltre all’isotretinoina, gli antibiotici o i retinoidi topici hanno un’efficacia comparabile per le lesioni infiammatorie, mentre gli antibiotici hanno un effetto minore sulle lesioni non infiammatorie. L’acne è una comune malattia della pelle con una presenza globale stimata del 9,4 per cento e un costo annuo di 3 miliardi di dollari negli Stati Uniti. Sebbene le linee guida che raccomandano i farmaci siano generalmente supportate da studi controllati randomizzati di alta qualità, la ricerca sull’efficacia di alcuni farmaci è stata nel tempo carente.