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AGI -Le donne coinvolte negli incidenti stradali sono associate a un rischio maggiore di subire traumi rispetto alle controparti maschili. Lo evidenzia uno studio, pubblicato sulla rivista Frontiers in Public Health, condotto dagli scienziati del Medical College of Wisconsin. Il team, guidato da Susan Cronn, ha esaminato i dati relativi alle lesioni da trauma delle vittime di incidenti automobilistici per valutare le distinzioni di genere. Gli equipaggiamenti di sicurezza delle automobili, spiegano gli esperti, sono stati progettati pensando a un corpo maschile, il che potrebbe spiegare perché le donne siano generalmente associate a rischi maggiori di lesioni, traumi e intrappolamenti in caso di incidenti.

“Abbiamo scoperto una notevole differenza di genere in termini di lesioni da trauma – sottolinea Cronn – i modelli evidenziano che le donne sono associate a conseguenze importanti più frequentemente rispetto alle controparti maschili, indipendentemente dalla gravità degli urti. Dobbiamo pertanto approfondire e capire come migliorare queste statistiche”. In totale, gli studiosi hanno utilizzato i dati di oltre 56 mila vittime di incidenti stradali. L’impiego di dati clinici è stato estremamente utile per ottenere un quadro reale della situazione piuttosto che semplici stime di rischio. Stando a quanto emerge dall’indagine, gli uomini erano associati a un tasso di infortuni generale superiore, ma il numero di lesioni al bacino e al fegato era significativamente più elevato per le donne, così come il rischio di traumi, perdite di sangue, emorragie e tasso di mortalità. “Queste informazioni – aggiunge Cronn – potrebbero indicare che i corpi femminili sono più vulnerabili in alcune situazioni. Spesso si pensa che i segni vitali siano gli stessi per ogni paziente, ma è possibile che sia necessario ridefinire i parametri di normalità”. Un indice di trauma differenziato per genere potrebbe rivoluzionare il modo in cui medici, paramedici e soccorritori si comportano con le vittime di incidenti. “Speriamo che i nostri risultati possano contribuire a sviluppare migliori sistemi di sicurezza automobilistica – conclude Cronn – che tengano in considerazione le importanti differenze tra i corpi maschili e femminili. Al contempo, i prossimi studi dovranno valutare i dati relativi alla dimensione dei veicoli, la tipologia e la dinamica degli incidenti, che non erano inclusi nella nostra analisi”. 

AGI – L’analisi dell’andatura degli anziani attraverso una fotocamera di profondità potrebbe contribuire a individuare il rischio di declino cognitivo precoce. Questa interessante prospettiva emerge da uno studio, pubblicato sul Journal of Alzheimer s Disease Reports, condotto dagli scienziati del College of Engineering and Computer Science della Florida Atlantic University. Il team, guidato da Behnaz Ghoraani, ha esaminato la correlazione tra sottili disturbi dell’andatura negli anziani e il rischio di sviluppare declino cognitivo. In ambito clinico, spiegano gli esperti, l’analisi della camminata sta emergendo come un prezioso complemento non invasivo alle valutazioni cognitive. Il gruppo di ricerca ha considerato la capacità di un gruppo di volontari di seguire un percorso curvo, che richiede maggiori capacità cognitive e motorie rispetto alla camminata in linea retta.

 

Gli scienziati hanno utilizzato una telecamera di profondità, in grado di rilevare e monitorare 25 articolazioni del corpo, per registrare l’andatura dei partecipanti e individuare i segni di deterioramento cognitivo lieve. I singoli segnali sono stati elaborati per individuare 50 marcatori di andatura, che sono stati confrontati utilizzando analisi statistiche descrittive. Questi parametri hanno evidenziato differenze significative tra il gruppo di controllo, formato da partecipanti sani, e i pazienti con lieve deterioramento cognitivo. Tra le caratteristiche più rilevanti, sono emersi macro-marcatori, come velocità e cadenza, ma anche micro-marcatori, come fasi di appoggio, oscillazione e falcata.

 

“La camminata curva – riporta Ghoraani – ha mostrato notevoli disparità tra i nostri gruppi di studio. In caso di deterioramento cognitivo, si evincevano una lunghezza media del passo e una velocità mediamente inferiori, ma anche una diminuzione nella simmetria e nella regolarità del passo”. I ricercatori non hanno riportato particolari differenze di genere nei risultati ottenuti. Tuttavia, i partecipanti con deterioramento cognitivo erano associati a un indice di massa corporea più elevato e livelli di istruzione generalmente più bassi rispetto ai volontari sani. “Un lieve deterioramento cognitivo – conclude Ghoraani – può essere un segno precoce della malattia di Alzheimer. Il nostro approccio migliora la comprensione delle caratteristiche legate all’andatura e individua un potenziale strumento efficace e non invasivo per rilevare il rischio di sviluppare questa problematica”.

AGI – Più di 35 anni dopo la sua invenzione, una terapia che utilizza cellule immunitarie estratte dal tumore di una persona per combatterlo sta finalmente arrivando ai pazienti. Almeno 20 persone negli Usa con melanoma avanzato hanno intrapreso un trattamento con i cosiddetti linfociti infiltranti il tumore (TIL), che prendono di mira e uccidono le cellule tumorali. Il trattamento, chiamato lifileucel, è la prima terapia TIL ad essere approvata dalla Food and Drug Administration (FDA) statunitense. Ed è la prima terapia con cellule immunitarie a ottenere l’approvazione della FDA per il trattamento di tumori solidi come il melanoma. I medici utilizzano già cellule immunitarie chiamate cellule T CAR (recettore chimerico dell’antigene) per curare il cancro, ma la terapia CAR-T viene utilizzata solo contro i tumori del sangue come la leucemia.

 

I TIL sono un tipo di cellula immunitaria naturale chiamata cellula T. I TIL riconoscono bersagli, chiamati antigeni, sulla superficie delle cellule tumorali e si insinuano nei tumori solidi per ucciderli. Il loro uso ora negli Usa è il frutto degli studi di Steven Rosenberg, ricercatore sul cancro e chirurgo presso il National Cancer Institute di Bethesda, nel Maryland, che per primo ha dimostrato che i TIL potrebbero ridurre i tumori nelle persone con melanoma. Negli studi clinici, il trattamento TIL ha messo alcune persone con melanoma in remissione fino a 20 anni. La FDA ha concesso l’approvazione il 16 febbraio per il lifileucel, venduto con il nome di Amtagvi dalla società di biotecnologie Iovance Biotherapeutics, con sede a San Carlos, California. L’approvazione “è un grande risultato”, afferma lo specialista TIL Nick Restifo, capo scienziato presso Marble Therapeutics a Boston, Massachusetts, sentito da “Nature”.

 

Dice che aprirà la strada all’uso dei TIL per trattare altri tumori, compresi i tumori del polmone e del pancreas, nel prossimo futuro. Per questo trattamento dopo che il tumore di una persona è stato rimosso, i chirurghi inviano campioni di tessuto a un laboratorio che isola i TIL e li fa crescere per tre settimane finché non si sono moltiplicati in miliardi di cellule. Prima che i TIL vengano reinfusi nella persona trattata, al ricevente viene somministrata la chemioterapia e una sostanza chimica immunitaria chiamata interleuchina-2 (IL-2) che uccide temporaneamente le cellule immunitarie per fare spazio ai TIL. Per ora, lifileucel può essere utilizzato solo come trattamento di ultima istanza nelle persone con alcune forme di melanoma avanzato che non hanno risposto ad altri trattamenti. Ma Iovance e altri stanno attualmente testando il lifileucel come trattamento di prima linea contro il melanoma. Alcune prove suggeriscono che potrebbe essere ancora più efficace come trattamento di prima o seconda linea, prima che un trattamento aggressivo possa danneggiare i TIL nei tumori.

 

Nello studio condotto da Iovance che ha testato il lifileucel su 153 persone con melanoma, i tumori si sono ridotti nel 31 per cento dei partecipanti. E in un secondo studio condotto in Danimarca, il 20 per cento delle persone che hanno ricevuto la terapia TIL sono andate in remissione completa, rispetto al 7 per cento di coloro che hanno ricevuto un farmaco diverso. Iovance ha affermato che prevede di far pagare 515.000 dollari per il trattamento, rendendolo ancora più costoso di alcune delle sei terapie CAR-T approvate negli Stati Uniti. Ma altri approcci potrebbero rendere i TIL più convenienti, afferma Inge Marie Svane, immunologa oncologica presso l’Ospedale universitario di Copenaghen che sta conducendo studi TIL in Europa. Diversi ospedali universitari stanno coltivando TIL per il melanoma senza il coinvolgimento di un’azienda, utilizzando un processo che costa circa 50.000 euro.

AGI – Le donne italiane trascurano la propria salute e stanno peggio oggi che all’apice della pandemia. Sono poco confortanti i dati emersi dall’Hologic Global Women’s Health Index, indagine annuale, giunta alla sua terza edizione, che misura lo stato di salute del 97% delle donne e delle ragazze del mondo di età pari o superiore ai 15 anni. L’analisi è stata sviluppata in collaborazione con Gallup, che ha intervistato oltre 147.000 donne e uomini di 143 Paesi e territori, in più di 140 lingue. L’Hologic Global Women’s Health Index ha l’obiettivo di essere un punto di riferimento permanente per misurare e monitorare i cambiamenti nei comportamenti e negli atteggiamenti che influenzano l’accesso delle donne a un’assistenza sanitaria di qualità in ogni angolo del mondo. Fornisce ai leader globali, ai paesi e ai sostenitori i dati e le intuizioni per alimentare politiche sanitarie innovative e programmi di assistenza che cambiano la vita.

 

Nel complesso, i dati raccolti nell’indagine vanno a descrivere cinque dimensioni della salute femminile interconnesse: la prevenzione, la salute emotiva, le opinioni sulla salute e sulla sicurezza, i bisogni di base e la salute individuale. Insieme, tali dimensioni spiegano più dell’80% della variazione nell’aspettativa di vita delle donne in tutto il mondo. I numeri dello studio, raccolti in Italia, però, rivelano una realtà particolarmente preoccupante. Solo il 51% degli intervistati si dichiara soddisfatto della disponibilità di un’assistenza sanitaria di qualità nella loro zona, percentuale che tende a diminuire ulteriormente per le donne appartenenti alle fasce di reddito più basse (48%). Un dato allarmante, soprattutto se paragonato al 2020, quando la soddisfazione era pari al 60% e rispetto la media globale ed UE (68%).
 

Inoltre, l’indice ha evidenziato che le donne italiane sono le meno partecipi ai programmi di prevenzione oncologica e malattie sessualmente trasmissibili: solo l’11% dichiara di essersi sottoposta a un test oncologico negli ultimi 12 mesi (media EU 20%, media globale 11%) e solo il 5% si è sottoposto a un test per le malattie o le infezioni sessualmente trasmissibili negli ultimi 12 mesi (media europea 8%, media mondiale 10%). L’Italia si colloca quindi al 17esimo posto nella dimensione prevenzione nel 2022, risultando così al di sotto della media dei paesi EU (25). Oltre a questo, dai dati si evidenzia come solo il 37% delle donne in Italia si è sottoposto a un esame della pressione arteriosa negli ultimi 12 mesi, un elemento in linea con il benchmark globale (36%) ma inferiore al benchmark UE (47%). Percentuale che è in diminuzione del -6% rispetto al 2020, quando molti esami routinari erano rallentati causa Covid-19. Anche i dati sulla salute emotiva non sono confortanti.

 

Dalla ricerca emerge che quasi 9 donne su 10 (86%) percepiscono la violenza domestica come un problema diffuso nel luogo in cui vivono, percentuale molto al di sopra della media globale (64%). Infine, almeno una donna su 10 in Italia riferisce di aver provato emozioni negative nel giorno precedente a quello dell’intervista, e anche in questo caso il tasso di emozioni negative è superiore sia alla media globale sia alla media dell’UE: preoccupazione (55% IT, 39% UE, 42% Global), tristezza (33% IT, 26% UE, 30% Global), stress (44% IT, 35% UE, 39% Global), rabbia (12% IT, 15% UE, 25% Global). L’indice complessivo sulla percezione della salute delle donne in Italia scende di una posizione, portando l’Italia dietro Paesi come Tagikistan, Uzbekistan, Vietnam, Bulgaria sotto la media dei paesi del G20. “Hologic è da sempre impegnata nel miglioramento della salute della donna”, commenta Giacomo Pardini, Senior Country Leader di Hologic Italia.

 

“I risultati del rapporto annuale Hologic Global Women’s Health Index, ora giunto al terzo anno, sono allo tempo stesso illuminanti e preoccupanti ed evidenziano l’importanza di aumentare gli sforzi collettivi per migliorare il benessere delle donne a livello globale. In un mondo in cui la salute delle donne riflette direttamente la salute delle società, è sorprendete osservare – continua – un peggioramento dei dati, specialmente in dimensioni cruciali come la prevenzione. Questi aspetti influenzano significativamente l’aspettativa di vita media delle donne alla nascita, sottolineando l’urgenza di affrontare tali sfide. Dobbiamo lavorare tutti insieme, imprese, associazioni e istituzioni affinché la salute delle donne sia prioritaria, indipendentemente dalla posizione geografica, dallo stato economico o dal livello di istruzione. Insieme, possiamo lavorare per un futuro in cui il benessere delle donne sia garantito”, conclude.

AGI – Il rischio obesità aumenta di 6 volte se i propri genitori erano obesi alla stessa età. Lo rivela uno studio, che verrà presentato al Congresso Europeo sull’obesità (ECO 2024) a Venezia il 12-15 maggio, condotto dagli scienziati dell’Università di Tromsø. Il team, guidato da Mari Mikkelsen, ha esaminato i dati relativi al peso e l’altezza di oltre duemila persone. I risultati hanno evidenziato un forte legame tra l’indice di massa corporea dei genitori di età compresa tra 40 e 59 anni e il parametro dei figli alla stessa età. Sempre più evidenze scientifiche mostrano che i figli di genitori affetti da obesità corrono un rischio più elevato di sviluppare la stessa problematica, ma finora questa correlazione non era stata monitorata fino all’età adulta. In questo lavoro, gli studiosi hanno scoperto che un solo genitore con obesità poteva triplicare la probabilità di accumulare peso in eccesso in età adulta per la prole rispetto ai figli di persone normopeso.

“I geni – afferma Mikkelsen – svolgono un ruolo importante sulla salute, e possono influenzare la suscettibilità dell’organismo all’aumento del peso, nonché il modo in cui rispondiamo agli ambienti in cui può essere più difficile mangiare in modo sano. L’obesità infantile – continua la ricercatrice – generalmente può accompagnare l’individuo fino alla prima età adulta. Il nostro lavoro dimostra che l’indice di massa corporea dei genitori tra i 40 e i 50 anni è strettamente collegato a quello dei figli alla stessa età”. In particolare, riportano gli scienziati, quado solo la madre o solo il padre avevano problemi di peso in eccesso, i bambini avevano una probabilità rispettivamente 3,44 e 3,74 volte più elevata di sviluppare obesità rispetto ai figli di persone normopeso. “Sebbene non siamo ancora in grado di spiegare le motivazioni alla base di questa correlazione – conclude Mikkelsen – il nostro lavoro evidenzia l’importanza di promuovere iniziative volte a trattare e prevenire l’obesità, una condizione che può influenzare la salute in modo significativo. La ricerca getta le basi per uno studio approfondito volto a individuare i fattori che influenzano la trasmissione intergenerazionale dell’obesità”. 

AGI – L’uso di integratori di calcio e vitamina D tra le donne in postmenopausa sembra associato a un rischio inferiore di decesso per cancro, e a un tasso di mortalità superiore per malattie cardiovascolari (CVD). Questo bivalente risultato emerge da uno studio, pubblicato sulla rivista Annals of Internal Medicine, dell’Università dell’Arizona. Il team ha considerato i dati della Women’s Health Initiative (WHI), del National Death Index e di un’analisi di follow-up durata sette anni. I ricercatori hanno valutato i rischi di mortalità specifica per malattia e per tutte le cause, l’incidenza del cancro, di problematiche cardiovascolare e il tasso di frattura dell’anca. Gli scienziati hanno scoperto che le donne in postmenopausa che facevano uso di integratori erano associate a un rischio del sette per cento più basso di morire di cancro. Allo stesso tempo, però, lo stesso sottogruppo del campione sembrava correlato a un tasso del sei per cento più elevato di sperimentare malattie cardiovascolari letali. Lo studio non ha riscontrato alcun effetto complessivo significativo su altre misure, inclusa la mortalità per tutte le cause. Gli autori precisano che l’incidenza del cancro sembrava dipendere dal fatto che le donne stessero già assumendo integratori prima dell’inizio dello studio. Saranno necessari ulteriori approfondimenti, concludono gli scienziati, per validare questi risultati e comprendere l’eventuale relazione di causa-effetto tra l’assunzione di integratori di calcio e vitamina D e il rischio di mortalità. 

AGI – La scarsa concentrazione non indica mancanza di intelligenza: è piuttosto la prova di un cervello impegnato in più attività. A rivelarlo uno studio condotto dai neuroscienziati del Carney Institute for Brain Science della Brown University, pubblicato su Nature Human Behaviour. La ricerca illustra come le parti del cervello debbano cooperare per concentrarsi ad elaborare informazioni importanti, filtrando al contempo le distrazioni. Se si immagina un ristorante affollato, con il rumore di piatti, la musica che suona, persone che parlano a voce alta l’una sull’altra, è sorprendente che qualcuno, in un ambiente del genere, riesca a concentrarsi a sufficienza per sostenere una conversazione. Lo studio fornisce alcune delle informazioni più dettagliate sui meccanismi cerebrali che aiutano le persone a prestare attenzione in un ambiente ricco di distrazioni e su ciò che accade quando invece non riescono a concentrarsi. Prove precedenti hanno stabilito che le persone quanto si concentrano, possono valorizzare le informazioni rilevanti, escludendo allo stesso tempo le distrazioni.

La nuova ricerca svela il processo con cui il cervello coordina queste due funzioni critiche. “Allo stesso modo in cui riuniamo più di cinquanta muscoli per eseguire un compito fisico come l’uso delle bacchette, il nostro studio ha scoperto che possiamo coordinare più forme diverse di attenzione per eseguire atti di destrezza mentale”, ha detto Harrison Ritz, che ha condotto lo studio mentre era dottorando alla Brown. “I risultati forniscono indicazioni su come le persone usano le capacità relative all’attenzione e su cosa genera fallimenti – ha affermato, il coautore, Amitai Shenhav, professore associato presso il Dipartimento di Scienze Cognitive, Linguistiche e Psicologiche della Brown -. Questi risultati possono aiutarci a capire come noi esseri umani siamo in grado di esibire una così grande flessibilità cognitiva, che ci consente di prestare attenzione a ciò che vogliamo, quando vogliamo. Possono anche aiutarci a capire meglio le limitazioni di questa flessibilità e come queste possano manifestarsi in alcuni disturbi legati all’attenzione, come l’ADHD”, ha continuato Shenhav. Per condurre lo studio, Ritz ha somministrato ai partecipanti un compito cognitivo mentre misurava la loro attività cerebrale in una macchina fMRI. I partecipanti hanno visto una massa vorticosa di punti verdi e viola che si muovevano a destra e a sinistra, come uno sciame di lucciole. I compiti, di difficoltà diversa, consistevano nel distinguere il movimento e i colori dei punti. In un esercizio, ad esempio, i partecipanti dovevano selezionare il colore prevalente dei punti in rapido movimento quando il rapporto tra viola e verde era quasi a metà. Ritz e Shenhav hanno poi analizzato l’attività cerebrale dei partecipanti in risposta ai compiti. “Si può pensare al solco intraparietale come a due manopole di una radio: una che regola la messa a fuoco e una che regola il filtraggio – ha spiegato Ritz, che ora è borsista post-dottorato presso il Princeton Neuroscience Institute -. Nel nostro studio, la corteccia cingolata anteriore tiene traccia di ciò che accade con i punti. Quando la corteccia cingolata anteriore riconosce che, ad esempio, il movimento rende il compito più difficile, spinge il solco intraparietale a regolare la manopola di filtraggio per ridurre la sensibilità al movimento. Nello scenario in cui i punti viola e verdi sono quasi al 50/50, potrebbe anche dirigere il solco intraparietale a regolare la manopola di messa a fuoco per aumentare la sensibilità al colore. Ora le regioni cerebrali interessate sono meno sensibili al movimento e più sensibili al colore appropriato; quindi, il partecipante è in grado di fare la scelta corretta”, ha aggiunto Ritz.

La descrizione di Ritz sottolinea l’importanza della coordinazione mentale rispetto alle capacità mentali, rivelando che un’idea spesso espressa è un’idea sbagliata. “Quando si parla dei limiti della mente, spesso si parla di esseri umani che non hanno la capacità mentale o di esseri umani che non hanno potenza di calcolo. Questi risultati supportano una prospettiva diversa sul perché non siamo sempre concentrati. Non è che il nostro cervello sia troppo semplice, ma piuttosto che il nostro cervello è davvero complicato, ed è la coordinazione che è difficile”, ha sottolineato Ritz. I progetti di ricerca in corso si basano sui risultati di questi studi. In collaborazione, medici e scienziati della Brown University e del Baylor College of Medicine stanno ora studiando strategie di concentrazione e filtraggio in pazienti con depressione resistente al trattamento. I ricercatori del laboratorio di Shenhav stanno esaminando il modo in cui la motivazione guida l’attenzione; uno studio guidato da Ritz e dalla studentessa di dottorato della Brown, Xiamin Leng, esamina l’impatto delle ricompense e delle sanzioni finanziarie sulle strategie di concentrazione e filtraggio. 

AGI – I cosmetici, come il fondotinta, se non rimossi durante l’esercizio fisico, possono svolgere un’azione negativa sulla pelle, causando secchezza e accelerando la produzione di sebo. A rivelarlo uno studio internazionale, pubblicato sul Journal of Cosmetic Dermatology. L’uso del make-up può esaltare la bellezza di una persona e nascondere le imperfezioni della pelle. Per questa ragione, un numero sempre maggiore di persone svolge abitualmente attività fisica indossando cosmetici. Sebbene l’esercizio fisico abbia un effetto positivo sulla condizione della pelle, il trucco potrebbe avere potenziali effetti negativi sulla pelle.

Lo studio ha cercato di esplorare gli effetti del fondotinta in crema sulla pelle durante l’esercizio aerobico. Il fondotinta utilizzato era a base d’acqua privo di oli, non conteneva sostanze oleose ed era pensato per chi ha la pelle grassa. È stato scelto per controllare l’idratazione della pelle, ma anche perché ipoallergenico. La ricerca ha coinvolto 43 studenti universitari sani, di cui 20 di sesso maschile e 23 femminile. Ai partecipanti è stata applicato un fondotinta in crema su metà del volto, in due aree diverse, fronte e zigomo. L’altra metà del viso è servita da controllo. I livelli di idratazione, elasticità, pori, sebo e idratazione della pelle sono stati misurati con un dispositivo di analisi della pelle, prima e dopo un esercizio su tapis roulant di 20 minuti. La sudorazione è aumentata dopo l’esercizio sia nelle zone non truccate che in quelle truccate; tuttavia, l’effetto è stato maggiore nelle zone truccate. Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che i cosmetici impedisco al sudore di evaporare dall’epidermide.

L’elasticità della pelle è aumentata dopo l’esercizio, ma in misura maggiore nelle zone truccate rispetto a quelle non truccate. Dopo l’attività fisica, i pori si sono dilatati nella pelle non truccata, ma non in modo significativo in quella truccata. Ciò indica che il make-up potrebbe ostruire i pori. Secondo studi precedenti, se i pori sono ostruiti e la secrezione del sudore non avviene correttamente, il sebo e le sostanze di scarto sulla pelle possono aumentare, causando problemi cutanei. Il livello di idratazione della pelle è aumentato nelle zone non truccate e diminuito in quelle truccate, suggerendo che può essere difficile mantenere una pelle idrata quando si indossano cosmetici.

“Per la salute della pelle, è meglio svolgere l’esercizio fisico senza cosmetici”, ha dichiarato Dongsun Park, autore corrispondente della Korea National University of Education. “È sempre più diffusa la tendenza a indossare cosmetici durante l’attività fisica”, ha continuato Park. “Tuttavia, rimane la necessità di approfondire la conoscenza degli effetti della cosmesi sull’epidermide facciale durante l’esercizio fisico, date le lacune esistenti”, ha precisato Park. “Lo studio è uno dei pochi che mostra come il fondotinta influisca sulla pelle durante l’esercizio fisico”, ha sottolineato Park.

“È importante notare che il sudore combinato con il trucco può rappresentare un problema maggiore per la pelle a causa dell’ostruzione dei pori.”, hanno dichiarato i ricercatori. “Studi futuri dovrebbero esplorare l’uso di diverse creme per fondotinta: a base di olio, a base d’acqua e senza acqua”; hanno suggerito gli autori.

“È raccomandabile lavare delicatamente il viso prima dell’esercizio fisico per attenuare la possibile ostruzione dei pori durante l’attività”, hanno consigliato gli scienziati. “Inoltre, è consigliato un fondotinta a base d’acqua per coloro che hanno una pelle leggermente secca”, hanno suggerito gli autori. “La ricerca offre importanti spunti per il pubblico, incoraggiandolo a considerare le possibili conseguenze dell’uso del trucco durante l’attività fisica”, hanno aggiunto i ricercatori. “Studi futuri potrebbero prendere in considerazione la valutazione della sensibilità della pelle dei partecipanti e stratificare i gruppi di studio di conseguenza”, hanno concluso gli autori. 

AGI – Scadono come la lavatrice o il frigorifero: anche le protesi ortopediche che ci consentono di recuperare una funzione articolare compromessa, come correre, saltare o salire le scale, definita nel 2007 da Lancet “l’intervento del secolo”, non durano per sempre e nel tempo vanno incontro alla necessità di un “tagliando”. Una domanda in crescita esponenziale negli Stati Uniti che vale anche per l’Italia, per l’aumento progressivo di pazienti che vivranno più a lungo delle loro protesi, che hanno una durata media di circa 20 anni, a causa del dilatarsi dell’aspettativa di vita e dell’incremento di giovani, al di sotto dei 60 anni, che chiedono di sottoporsi a questo intervento. Si stima che ogni anno siano 20mila le protesi in “scadenza”. Per fare il punto e affrontare questa emergenza, si riuniscono oggi a Verona, fino all’8 marzo, i maggiori esperti nazionali e internazionali per il nono congresso dell’Associazione Italiana di Riprotesizzazione, organizzato dal Dipartimento di Ortopedia e Traumatologia dell’IRCCS di Negrar, al fine di discutere le tematiche chirurgiche più avanzate, definire un razionale scientifico e preparare i giovani chirurghi ortopedici alla chirurgia di revisione. “Continua ad aumentare in Italia il numero di interventi per l’impianto di protesi ortopediche all’anca, ginocchio e spalla, che in vent’anni sono quasi triplicati, passando da 80 mila nel 2000 a oltre 220 mila nel 2022, secondo i più recenti dati Agenas”, dichiara Claudio Zorzi, tra i maggiori esperti, presidente del congresso e direttore dell’Ortopedia e Traumatologia dell’IRCCS di Negrar, che proprio in virtù dell’eccellenza raggiunta nel campo della revisione di protesi è tra i centri con la più alta casistica in Italia e struttura di riferimento regionale. “Una quantità impensabile di impianti che colloca l’Italia tra i primi posti in Europa per numero di protesi impiantate in tutte le articolazioni e per i livelli di affidabilità. Causa più frequente l’artrosi che tende a degenerare con l’età”, aggiunge. “Tuttavia – continua -, nonostante le moderne tecnologie siano riuscite a creare protesi di altissima qualità, la fisiologia dell’articolazione sottoposta a intervento di protesi è comunque ben diversa da quella naturale e ci possono essere molti fattori che ne influenzano il buon funzionamento: a partire dal naturale allentamento delle parti mobili, all’utilizzo eccessivo in sovraccarico, soprattutto nei pazienti più giovani o in chi è in sovrappeso, fino alle infezioni, o alla rottura molto rara delle componenti protesiche. Problemi che devono essere ripresi prima che vengano a crearsi gravi danni alle strutture ossee e legamentose”. Anche se ancora oggi non è ipotizzabile, per ogni paziente, una previsione precisa della durata dell’impianto che tenga conto delle tante variabili in gioco come l’età, il sesso, il tipo di protesi impiegata, si può stimare che le protesi saranno ancora “buone” a 15-20 anni dall’impianto, nel 90% dei casi, secondo un ampio studio pubblicato su Lancet dai ricercatori dell’Università di Bristol. Si calcola, infatti, che ogni anno siano oltre 20 mila le protesi che abbiano bisogno di un tagliando, pari al 10% delle oltre 220 mila protesi impiantate ad oggi annualmente. Un fenomeno destinato a una crescita esponenziale, in linea con i dati americani che prevedono aumenti record del 137% per la revisione di protesi all’anca e fino al 600% per la sostituzione di protesi del ginocchio, dovuto, da un lato, al fatto che gli anziani vivano sempre più a lungo e, dall’altro, all’aumento dei pazienti giovani, al di sotto dei 60 anni, che decidono di sottoporsi a questo intervento. “Stimando una durata media della protesi di circa 15-20 anni, risulta evidente come un paziente giovane che ha ricevuto indicazione di protesi al di sotto dei 60 anni, o anche un paziente anziano che si è sottoposto all’impianto intorno ai 70 anni, ‘consumino’ la propria protesi in un’età in cui la richiesta funzionale o l’assenza di dolore è ancora alta e rende necessaria una revisione”, spiega Antonio Campacci, responsabile della Chirurgia dell’anca dell’IRCCS di Negrar e vicepresidente del congresso insieme al collega responsabile della Chirurgia della spalla, Paolo Avanzi. “L’impianto di una protesi è una via a senso unico, se fallisce non si torna indietro e solo un’ulteriore protesi potrà cercare di garantire una funzione articolare che duri nel tempo”, sottolinea Campacci. Una procedura molto complessa che per il suo successo richiede centri ad alta specializzazione e chirurghi esperti che si auspica aumentino in tutta Italia alla luce dell’incremento esponenziale delle revisioni. Una eventuale carenza rischia di creare migliaia di disabili, se la revisione fallisce, con importanti oneri per il Servizio Sanitario Nazionale. “L’abitudine ad affrontare il problema protesico, già importante nei primi impianti, diventa essenziale nelle revisioni, in cui la pratica e l’esperienza riducono molto i rischi che i pazienti non raggiungano una normale autosufficienza”, puntualizza Zorzi. 

 

AGI – L’hanno già battezzata la ‘mini-curva’ da carico di glucosio e consente di fare una diagnosi precocissima di diabete e pre-diabete, almeno un paio d’anni prima rispetto ai test attuali (curva da carico di glucosio tradizionale a due ore, o OGTT). Per questo, l’IDF (International Diabetes Federation), la federazione mondiale che include tutte le società di diabetologia internazionali e le associazioni delle persone con diabete, ha deciso di proporla come nuovo criterio diagnostico per il pre-diabete e il diabete, basandosi sulla glicemia alla prima ora della curva da carico di glucosio.

 

Verso una nuova definizione di diabete e di prediabete. Il nuovo Position Statement dell’IDF ha dunque adottato, dopo un’attenta revisione di tutta la letteratura scientifica esistente, il valore soglia maggiore o uguale di 155 mg/dL alla prima ora della curva da carico di glucosio per la diagnosi di ‘pre-diabete’ (iperglicemia intermedia’) nei soggetti con normale glicemia a digiuno; questo valore è altamente predittivo di progressione verso il diabete tipo 2, di complicanze micro e macro-vascolari, di apnee da sonno, di steatosi epatica(fegato grasso) associato a disfunzione metabolica e di mortalità nei soggetti con fattori di rischio.

 

Viene inoltre introdotto un nuovo criterio diagnostico di diabete tipo 2, cioè una glicemia superiore a 209 mg/dl sempre alla prima ora della curva da carico. “I nuovi criteri diagnostici alla prima ora della curva da carico – commenta il professor Giorgio Sesti, ordinario di Medicina Interna alla Sapienza Università di Roma e presidente della Società di Medicina Interna SIMI – consentono di individuare precocemente i soggetti ad aumentato rischio di diabete o già diabetici, che sfuggono a questa diagnosi con gli attuali criteri diagnostici (glicemia a digiuno minore di 100 mg/dl, glicemia a due ore dall’OGTT minore di 140mg/dl, HbA1c minore di 5,7%). Questo significa che sarà possibile formulare la diagnosi di diabete e di prediabete attraverso una ‘mini-curva’ da carico glucidico di appena un’ora (anziché le due ore attuali).

 

Ma soprattutto, consentirà di intercettare una serie di soggetti che i criteri attuali non permettono di individuare né come pre-diabetici, né come diabetici. La ‘mini-curva’ rappresenta un metodo più pratico e sensibile per ‘catturare’ un maggior numero di soggetti a rischio di sviluppare diabete franco e di riconoscere più precocemente i soggetti con diabete già conclamato”.

 

Cosa cambia per i pazienti. Grazie all’adozione di questi nuovi criteri diagnostici insomma le persone avranno la possibilità di arrivare ad una diagnosi più precoce di pre-diabete o di diabete. “Diagnosticare più precocemente il rischio di sviluppare il diabete o il diabete stesso – spiega il professor Sesti – consente di mettere in atto più tempestivamente una serie di misure preventive riguardanti lo stile di vita o farmacologiche, che aiutano a prevenire la progressione verso il diabete franco e a contenere i danni del diabete. Spesso infatti le complicanze vascolari sono già presenti al momento della diagnosi di diabete”.

 

Prevenire il diabete. È possibile prevenire la progressione dal pre-diabete al diabete mettendo in atto un drastico cambiamento dello stile di vita (dieta equilibrata e perdita di peso se necessaria, attività fisica, lotta alla sedentarietà, curare l’igiene del sonno, stop al fumo di sigaretta) e in alcuni casi ricorrendo alla terapia farmacologica. “La ‘mini-curva’ – sottolinea il professor Sesti – consente di individuare soggetti con pre-diabete che sarebbero sfuggiti, con i criteri diagnostici attualmente in uso, alla diagnosi e dunque alla messa in atto di una prevenzione efficace. Inoltre, studi longitudinali hanno dimostrato che l’innalzamento della glicemia alla prima ora della curva da carico di glucosio avviene più precocemente nel corso naturale della malattia diabetica ovvero quasi due anni prima dell’innalzamento della glicemia alla seconda ora”.

 

Come si è arrivati ai nuovi criteri diagnostici di pre-diabete e diabete. L’IDF è arrivato al documento di consenso sui nuovi criteri diagnostici, dopo aver esaminato i risultati di numerosi studi internazionali sul significato della glicemia alla prima ora della curva da carico, ai quali ha dato un notevole contributo la ricerca italiana. In particolare, il gruppo della Medicina Interna dell’Università ‘Magna Graecia’ di Catanzaro e dell’Azienda Ospedaliero Universitaria Sant’Andrea-Sapienza Università di Roma ha pubblicato oltre 40 articoli sull’argomento. Grande clamore a livello mediatico e della comunità scientifica internazionale aveva suscitato nel 2015 la pubblicazione di uno studio su Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism (JCEM, organo ufficiale della Endocrine Society americana), firmato dal professor Giorgio Sesti e dalla professoressa Teresa Vanessa Fiorentino, Associato di Medicina Interna all’Università ‘Magna Graecia’ di Catanzaro, che dimostrava come la glicemia alla prima ora della curva da carico di glucosio fosse in grado di predire con buona accuratezza il rischio di sviluppare un diabete conclamato entro i successivi 5 anni, anche nelle persone normoglicemiche, cioè con una glicemia a digiuno normale.

 

“La glicemia alla prima ora della curva da carico – ricorda il professor Sesti – è già da tempo usata per la diagnosi di diabete gestazionale, quindi rappresenta un elemento fisiopatologico importane, finora trascurato. L’iperglicemia precoce infatti è già un marcatore di diabete o di aumentato rischio di malattia. Quindi – conclude il presidente della SIMI – se è vero che i nuovi criteri diagnostici dell’IDF rappresentano una ‘novità’ nella diagnosi di diabete, l’importanza della glicemia alla prima ora dell’OGTT è già consolidata da tempo, dal punto di vista fisiopatologico”.

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