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AGI – Il nuovo decreto sull’immigrazione e la nota di aggiornamento del documento di economia e finanza (Nadef). Sono i due temi sul tavolo del Consiglio dei ministri di martedì. Per quanto riguarda il fronte dei migranti sono confermate le misure annunciate la scorsa settimana dalla premier Meloni. Prevista l’espulsione per gravi motivi di ordine pubblico o di sicurezza o per chi mente sull’età, il Viminale per gli hotspot potrà dal 2024 ricorrere alla Guardia costiera. In caso di momentanea indisponibilità di strutture ricettive temporanee” il prefetto potrà “disporre la provvisoria accoglienza del minore di età non inferiore a sedici anni in una sezione dedicata nei centri e strutture” ordinarie “per un periodo comunque non superiore a novanta giorni”.

In serata si è tenuto il pre-Consiglio e il contenuto del provvedimento potrebbe cambiare. Su alcune norme è in corso un confronto. Soprattutto quelle riguardanti i minori, un tema sul quale Forza Italia è stata sempre sensibile e, stando a fonti parlamentari, il partito azzurro avrebbe chiesto di approfondire meglio con il responsabile degli Interni Piantedosi le misure.

La Lega alza la voce con Berlino

Intanto la Lega torna ad alzare la voce nei confronti della Germania. “Stanno cercando di destabilizzare il governo attraverso il finanziamento delle Ong per riempirci di clandestini e far scendere il consenso del centrodestra in Italia”, ha sottolineato il vicesegretario del partito di via Bellerio Crippa.

Ma il focus del Consiglio dei ministri sarà sui dati economici in vista della manovra. Anche lunedì in Consiglio dei ministri si è registrato un asse tra la premier Meloni e il ministro dell’Economia Giorgetti quando si è tornati ad accennare alla legge di bilancio. Da una parte il governo ha fornito ulteriori aiuti per 1,3 miliardi, dall altra resta la preoccupazione per la situazione e, in particolare, i timori sul prezzo della benzina che potrebbe continuare a salire. Con il titolare dell’Economia che non avrebbe escluso un inverno difficile da questo punto di vista. Nessun problema di stoccaggio ma basta uno sciopero in un Paese del mondo per far salire il prezzo del gas, ha argomentato un altro esponente dell’esecutivo. Da qui i richiami generali alla prudenza. Con il responsabile di via XX Settembre che sarebbe tornato a toccare il tasto della spending review

Cautela sui conti

Nelle scorse settimane gli esponenti dell’esecutivo sono stati invitati a compilare una tabella di riduzione delle spese correnti ma non tutti hanno adempiuto al compito. “Aspetto le vostre proposte, altrimenti vado in proporzione. Evitate di farlo fare a me…, “, è stata la battutà del ministro secondo quanto viene riferito da chi ha partecipato alla riunione.

I margini per la legge di bilancio restano stretti, quando sul tavolo del Consiglio dei ministri approderà la Nadef la partita entrerà nel vivo. Ci sarà una quota per il ponte sullo Stretto di Messina, ha sottolineato Salvini. “L’obiettivo è garantire tutta la copertura per tutto l’arco degli anni e non mettere un tot ogni anno visto che si fa perchè è un’opera fondamentale, bisogna garantire la copertura dall’inizio alla fine”, ha aggiunto. In ogni caso “non ci sarà alcun miracolo”, ha chiarito. L’obiettivo dell’esecutivo resta quello di rassicurare i mercati.

Si profila una revisione al ribasso nella Nadef delle stime della crescita dell’Italia, con una diminuzione del Pil sia per il 2023 sia per il 2024 rispetto alle previsioni contenute nel Def di aprile scorso e una possibile variazione al rialzo del rapporto deficit/Pil. Una scelta definita “prudente” da parte del governo visto lo scenario macroeconomico, caratterizzato dal conflitto in corso in Ucraina che ha innescato una spirale di crescita dei prezzi e spinto le banche centrali a una politica monetaria rialzista.

A quanto si apprende da fonti qualificate, il Pil del 2023 potrebbe attestarsi a +0,8%, in leggera flessione rispetto al +0,9% tendenziale ipotizzato nel Def e del +1% stimato sul piano programmatico. Il Pil tendenziale per il 2024, invece, potrebbe aggirarsi sul +1%, mentre il documento di economia e finanza calcolava una ipotesi di crescita dell’1,4%. Potrebbe crescere, invece, il rapporto deficit/PIL, si ipotizza fino a qualche decimale sopra il 5%, in rialzo rispetto alla stima di aprile al 4,5%

AGI – Il tema dell’immigrazione è stato al centro del colloquio a due – un faccia a faccia senza le delegazioni che di solito accompagnano i leader – che si è svolto a Palazzo Chigi tra il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e il Presidente francese, Emmanuel Macron.

I due leader si sono confrontati per un’ora e venti minuti circa, dopo aver entrambi partecipato al funerale laico del Presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano. I due leader sono usciti insieme dalla Camera, al termine dei funerali, per recarsi a Palazzo Chigi.

Il presidente del Consiglio e il Presidente francese hanno avuto modo di intrattenersi qualche minuto a colloquio anche durante il breve tragitto, coperto a piedi, che separa i due Palazzi della politica. 

AGI – Tra i leader mondiali nel Palazzo di Vetro o nel fango della Romagna alluvionata. Nel ‘cimitero dei barchini’ a Lampedusa o al G20. Emergenza e agenda programmatica vanno in tandem nel primo anno di Giorgia Meloni da presidente del Consiglio. L’underdog della politica, così si è definita la stessa premier, determinata “a cambiare il Paese” ha sin qui operato in un contesto interno e globale condizionato dalla coda della pandemia da Covid, dalla guerra in Ucraina, dalla fiammata dell’inflazione, da sbarchi senza sosta di migranti sulle coste italiane, solo per accennare ai dossier di maggior spicco.

Così il sostegno ai redditi più bassi per combattere il caro vita, con il taglio del cuneo fiscale, le misure per il lavoro e il contrasto alla criminalità, anche minorile, hanno catalizzato l’azione dell’esecutivo che si avvia alla boa dei primi dodici mesi, quando il partito del presidente del Consiglio celebra invece un anno dalla vittoria delle elezioni. In ‘viaggio’, a proposito dell’iter parlamentare, le riforme sull’Autonomia differenziata e sulla Giustizia (ddl Nordio) che prevede l’abolizione del reato di abuso di ufficio e un giro di vite sulle intercettazioni.

Procede anche il confronto sulle riforme costituzionali. La ministra Casellati lavora sull’elezione diretta del premier, assetto istituzionale con il quale pera’ resta acceso il confronto con l’opposizione. Se la prima legge di Bilancio (“realistica” e “prudente”) ha segnato una certa continuità con l’esecutivo Draghi – soprattutto in conseguenza dei tempi ristretti – la cesura con il Conte bis è stata sin da subito netta.

Smantellata, infatti, la misura ‘bandiera’ M5s, il Reddito di cittadinanza considerato dal centrodestra “una forma mascherata di assistenzialismo” e ridimensionato il Superbonus (“una voragine per i conti pubblici”, attacca il centrodestra). Altro provvedimento di spicco, la tassa sugli extraprofitti delle banche (norma inserita nel dl Asset ora in esame al Senato) nonostante i malumori degli istituti di credito, il parere contrario della Bce e anche qualche mal di pancia tra gli alleati di Forza Italia.

Nel decreto Caivano – ancora da convertire in legge dal Parlamento – si prevede una stretta sulle baby gang (daspo e arresti in flagranza) e il carcere per i genitori che non mandano i figli a scuola, oltre a risorse per riqualificare l’area del Parco Verde. Ma a tenere banco è ovviamente anche il dossier immigrazione. I pezzi di legno del caicco e i corpi che galleggiano in mare, le bare bianche ammassate nella chiesa di un piccolo paese della Calabria: la scossa è arrivata a fine febbraio. Sulla scia della strage di migranti – oltre 90 le vittime – a Steccato di Cutro, il Cdm ha varato una serie di misure contro l’immigrazione illegale. Il Dl Cutro – già convertito in legge – prevede, ad esempio, nuovi reati e pene maggiori per gli scafisti oltre a una stretta sulla protezione speciale.

Proprio la questione migranti – il confronto è aspro con le opposizioni che accusano il governo di avere seppellito l’accoglienza diffusa – al momento rimane, insieme al varo della nuova legge di Bilancio, tra i dossier principali del governo. Sia sul fronte della politica estera, con il tentativo della premier di coinvolgere l’Europa – con Francia e Germania che alternano chiusure e dialogo – e l’Onu nel frenare le partenze dai Paesi di origine, sul modello dell’accordo con la Tunisia, e sia a livello interno, con il piano per la costruzione di nuovi Cpr e l’allungamento dei tempi di trattenimento fino a 18 mesi (norme inserite nel decreto Sud).

In questi primi 12 mesi dall’affermazione nelle urne c’è anche l’alluvione di maggio che ha piegato la Romagna: quindici morti, oltre 30mila sfollati e aziende in ginocchio. Il governo ha varato un decreto ad hoc con le risorse per sostenere la ricostruzione, poi lo scontro tra centrodestra e Pd sulla nomina del commissario e le accuse di Bonaccini sui ritardi dei fondi destinati ai privati. Altra accelerazione sulla delega fiscale (“era attesa da 50 anni”, ha detto la premier) diventata legge a inizio agosto e ora entro 24 mesi ci saranno i decreti attuativi. La riforma fiscale, tra le altre cose, prevede la revisione graduale delle aliquote Irpef, che diventeranno tre, nella prospettiva della transizione verso l’aliquota unica.

Contrasto al caro energia (22 miliardi di euro) e politiche per il lavoro e misure pensionistiche (8,7 miliardi), sono sul podio nel totale degli stanziamenti previsti dalle disposizioni legislative dell’esecutivo per l’anno finanziario 2023, secondo quanto si legge nella terza relazione, aggiornata dal 30 giugno scorso, del Dipartimento per il Programma di governo di Palazzo Chigi. Manca poco ai 12 mesi dal primo Cdm operativo, dopo la ‘cerimonia della campanella’ tra Mario Draghi e Giorgia Meloni, quello che approvo’ il ‘decreto Rave’ con il giro di vite per i raduni illegali e la stretta sui benefici sull’ergastolo ostativo.

Una misura che ha segnato anche l’inizio, dal punto di vista del dibattito politico, di un acceso confronto tra il centrodestra e le opposizioni. Come le polemiche per il rinvio della discussione sul salario minimo, per l’abolizione del Reddito di cittadinanza o per la riforma della giustizia. Tra i principali provvedimenti del governo, fino a oggi, anche il nuovo Codice della strada con multe più’ salate (fino a 2.600 euro) per chi guida usando lo smartphone. La prossima sfida del governo si giocherà su crescita, sostegno a famiglie e lavoratori, e capacita’ di mettere a terra i fondi del Pnrr. Una partita non disgiunta dal dossier europeo sulla riforma del Patto di Stabilita’. “Il tempio della velocità diventa anche per noi fonte di ispirazione, perché’ anche noi abbiamo bisogno di correre di più per far correre la nazione”, ha detto Giorgia Meloni tra i box del Gran premio di Formula 1 a Monza.

AGI – È stata aperta in Senato, per la seconda giornata consecutiva, la camera ardente per rendere omaggio al presidente emerito Giorgio Napolitano. A Palazzo Madama, in sala Nassirya, i due figli Giovanni e Giulio.

Nel primo giorno le visite istituzionali sono state tante, alcune anche inattese, come quella del Papa. Il pontefice si è trattenuto in preghiera dinanzi al feretro, dopo aver salutato la signora Clio e i familiari del presidente emerito. Prima di lui le più alte cariche dello Stato hanno reso omaggio a Napolitano, seguiti da cittadini comuni che sono rimasti in attesa di poter entrare a palazzo Madama in una lunga fila. 

Tra i primi ad arrivare, nel secondo giorno Massimo D’Alema. “Una grande personalità, un maestro severo, a volte, ma anche un uomo capace di slanci affettuosi”: Così lo ricorda cosi’ l’ex presidente del consiglio, lasciando la camera ardente in Senato. “Certamente – prosegue – una grandissima personalità che ha rappresentato, nella forma più alta, il senso dello Stato. Quell’amore verso la democrazia e il nostro Paese che ha dato un tratto, una caratteristica, del comunismo italiano”.

“Tanti anni di lavoro insieme al Parlamento europeo. Ci siamo confrontati tante volte e c’era un grande comune rispetto sia pure su fronti politici differenti”. Lo ha detto il ministro degli Esteri Antonio Tajani lasciando la camera ardente di Giorgio Napolitano. “Il mio ricordo più forte è quello del Parlamento europeo. Anche quando si è avversari politici quel che conta è il rispetto; la stima non è legata alle posizioni politiche. La sua principale caratteristica è che sapeva trovare una sintesi. Quando è stato rieletto presidente è perché evidentemente era la persona più giusta per superare quello stallo”, ha aggiunto.

Per Sergio Cofferati, Napolitano “Ha fatto cose straordinarie per l’Italia e per l’Europa. Ha sempre difeso le sue idee senza mai farle diventare un ostacolo anche per la soluzione di problemi complessi. Ci siamo sempre confrontati con la massima lealtà”. 

Anche Carlo Calenda, leader di Azione, e Luigi di Maio sono arrivati alla camera ardente di Giorgio Napolitano. L’ex capo politico del M5s ha lasciato un messaggio nel segno del “rispetto”. 

Tra le personalità che hanno reso omaggio al presidente emerito anche il regista Giuseppe Tornatore.

AGI – In linea con il governo Draghi nel sostegno pieno all’Ucraina, accenti diversi e talvolta anche aspri con i tradizionali partner europei, ma sostanziale continuità (soprattutto sul fronte conti pubblici) nei rapporti con Bruxelles e continuità ‘atlantista’ nelle relazioni con gli Usa. Attenzione all’Africa con la messa a punto del cosiddetto ‘Piano Mattei’ e una graduale presa di distanza negli accordi commerciali con la Cina, a partire dall’addio ‘soft’ al progetto sulla ‘Via della seta’.

Questi, a un anno dall’arrivo di Giorgia Meloni a palazzo Chigi, i punti chiave della politica estera del governo guidato dalla leader di FdI. Sul fronte guerra in Ucraina, la posizione di Meloni, peraltro già sostenuta quando la premier era all’opposizione, è stata di completo sostegno a Kiev. Una scelta pragmatica ma che nella fase di formazione del governo non è stata semplice a causa della posizione filo russa di diversi esponenti della maggioranza.

Il sostegno all’Ucraina

La prima ‘grana’ di politica estera di Meloni arriva un mese esatto dopo il voto, con la pubblicazione degli audio in cui Silvio Berlusconi difende di fatto Vladimir Putin attaccando Volodymyr Zelensky. “Su una cosa sono stata, sono, e sarò sempre chiara – fu la risposta di Meloni – intendo guidare un governo con una linea di politica estera chiara e inequivocabile. L’Italia è a pieno titolo, e a testa alta, parte dell’Europa e dell’Alleanza atlantica. Chi non fosse d’accordo con questo caposaldo non potrà far parte del governo, a costo di non fare il governo”.  “L’Italia con noi al governo non sarà mai l’anello debole dell’occidente”, aggiunse la premier per stoppare i sospetti di una vicinanza a Mosca.

Il sostegno a Kiev è continuato nel corso dell’anno non solo in chiave politica, ma anche militare, con l’approvazione dei decreti sull’invio di armi all’esercito ucraino. L’autorizzazione a inviare, “previo atto di indirizzo delle Camere”, la cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari in favore delle autorità governative dell’Ucraina è stata infatti prorogata al 31 dicembre di quest’anno.

Parigi-Roma

Sfumature diverse, toni più aspri e qualche tensione invece, come molti commentatori si aspettavano anche alla luce delle posizioni di Meloni espresse in campagna elettorale e durante i suoi anni all’opposizione, hanno caratterizzato il rapporto con i tradizionali alleati europei dell’Italia, a cominciare dalla Francia di Emmanuel Macron. Tra crisi e riappacificazioni, strappi e ricuciture, i rapporti tra Roma e Parigi hanno attraversato un anno di montagne russe, soprattutto per le divergenze sulla gestione dei flussi migratori.

Il culmine dello scontro è stato raggiunto a maggio, quando il presidente del partito di Macron definì “disumana e inefficace” la politica migratoria del governo, costringendo il ministro degli Esteri Antonio Tajani a cancellare una visita a Parigi alla sua omologa Catherine Colonna.

L’asse con Bruxelles

Una certa discontinuità, non solo di toni ma anche di contenuti vedi la riforma del regolamento sul Mes, ha caratterizzato il primo anno di governo Meloni anche nei rapporti con Bruxelles.  Anche se, soprattutto su fronte dei conti pubblici e delle regole di bilancio, l’esecutivo ha seguito il solco tracciato da Draghi in particolare nella legge di bilancio, in cui sono stati evitati aumenti di deficit e debito che avrebbero potuto creare tensioni con l’Unione europea.

L’importanza dell’Africa

Uno dei punti su cui Meloni ha più insistito sul fronte della politica estera e che sarà centrale durante il G7 a presidenza italiana dell’anno prossimo è il rapporto con l’Africa.  Meloni fin dal discorso di insediamento ha parlato di un ‘Piano Mattei’ per l’Africa, ovvero un “modello di cooperazione non predatorio” con le nazioni del continente, “in cui entrambi i partner devono poter crescere e migliorare”.

Il piano punta anche ad arrivare a uno sganciamento progressivo dalla dipendenza dal gas di Mosca e ha l’obiettivo dichiarato di trasformare l’Italia in un hub di distribuzione di energia dal Nord Africa al cuore dell’Unione europea. Meloni ha fatto diverse missioni in Africa, a partire dall’Algeria dove sono stati siglati diversi accordi e memorandum d’intesa, passando per Addis Abeba.

L’Italia inoltre, si è spesa per l’ingresso nel G20 dell’Unione Africana, ingresso formalizzato al vertice dei ‘Grandi’ di New Delhi. Meloni in quell’occasione ha annunciato che l’Italia “destinerà all’Africa il 70 per cento del Fondo per il clima, 3 miliardi di euro nei prossimi 5 anni“.

Il rapporto con Pechino

Infine, una delle operazioni già iniziate con il governo Draghi e messe in pratica dal governo Meloni riguarda la Cina e il progressivo abbandono degli accordi della cosiddetta ‘Via della Seta’.

L’operazione di sganciamento si è politicamente conclusa con il bilaterale che la presidente del Consiglio ha avuto a New Delhi con il premier di Pechino, Li Qiang, alla quale seguirà quella del formale di disimpegno dagli accordi. L’esecutivo è intenzionato a non rinnovare l’accordo e si profila l’uscita ‘soft’ già prospettata ai cinesi nella recente visita del ministro degli Esteri Antonio Tajani.

Resta il tema della visita di Meloni a Pechino entro l’anno, che è ancora in sospeso. La premier, proprio a Delhi, rispondendo alle domande dei giornalisti ha confermato che una data ancora non c’e’ e che sarebbe meglio aspettare quando le condizioni saranno più chiare.

AGI – La premier Giorgia Meloni si appresta a spegnere la prima ‘candelina’ a Palazzo Chigi e oggi FdI e il centrodestra segnano sul calendario la ricorrenza della vittoria elettorale con il 44% dei voti. Un’occasione per i primi bilanci di quel “il cambio di rotta” messo al centro del programma, nel segno del dovere di compattezza della maggioranza, con uno sguardo nel presente già fisso alla partita della legge di bilancio che dopo l’approdo della Nadef in Cdm il 28, entrerà nel vivo.

Certo, il rispetto dovuto all’apertura della Camera ardente per l’ultimo saluto di Paese e istituzioni a Giorgio Napolitano, ha imposto un netto cambio di programma rispetto alla kermesse prevista da Fratelli d’Italia, in collegamento da Roma con le piazze italiane per illustrare i risultati dell’esecutivo. Appuntamento che slitta di qualche giorno.

Resta in programma per Forza Italia il 29 settembre l’evento a Paestum per celebrare il successo nelle urne del 25 settembre 2022, con una connotazione in più, quella di ‘ripartire’ da Berlusconi e guardare al futuro. Nel caso degli ‘azzurri’ – sarà, tra gli altri, presente il presidente del Ppe Weber – l’occasione punterà a rilanciare il partito come forza di governo e a esaltare la figura del Cavaliere, fondatore dell’alleanza di centrodestra e morto il 12 giugno scorso.

E sulla compattezza della maggioranza e dell’esecutivo scommette anche Salvini che guarda a un orizzonte più lungo della legislatura, “governeremo per altri dieci anni”, ha ripetuto in più occasioni. Le iniziative dei partiti del centrodestra dei prossimi giorni serviranno anche per fare un bilancio di quanto accaduto in questo anno del dopo Draghi.

Il passaggio più delicato è stato alla prima curva, lo scontro sulla composizione del governo, il tema del ministero della Giustizia, La Russa eletto presidente del Senato senza i voti di Forza Italia, il foglietto ‘galeotto’ sul banco di Berlusconi con un giudizio ‘tranchant’ verso la premier in pectore Meloni. Poi il rapporto tra Fdi e FI si è stabilizzato dopo la ‘correzione’ impressa dallo stesso Cavaliere con le nuove nomine decise nel partito.

Ci sono stati momenti di attrito pure tra Lega e Fdi ma, tra alti e bassi, la coalizione ha gestito e portato avanti i dossier sul tavolo. Non sono comunque mancate le occasioni di frizione in questi dodici mesi. Gli ultimi sul tema della tassa sugli extraprofitti sulle banche, con FI che ha contestato il metodo adottato dal presidente del Consiglio e chiesto dei cambiamenti, e sul fronte dell’immigrazione con la Lega che non ha nascosto le perplessità sulla linea diplomatica portata avanti dall’esecutivo. Ma tra vari ‘stop and go’ il centrodestra punta a realizzare il programma presentato agli elettori in campagna elettorale.

“Da quando il governo è in carica è salita la borsa del 38 per cento. E lo spread Btp/Bund è di circa 60 punti inferiore a quanto era prima”, hanno sottolineato mercoledì scorso i due capigruppo di Fdi, Foti e Malan. Ma il 2023 sarà ricordato nel centrodestra soprattutto per la scomparsa di Berlusconi. “Un combattente” per Giorgia Meloni, “un grande uomo” per Salvini. Ora in agenda, oltre alla manovra, c’è in vista, tra l’altro, il pacchetto delle riforme costituzionali, l’iter dell’autonomia, la delega fiscale, la riforma della giustizia, mentre il ritorno delle province è stato di fatto rimandato all’anno prossimo.

La maggioranza di governo guarda ai prossimi appuntamenti elettorali, con le comunali e le Europee (per la primavera prossima ci potrebbe anche essere un election day). Il presidente del Consiglio Meloni in diverse occasioni ha invitato i partiti della maggioranza a mettersi d’accordo sulle mosse da compiere, per evitare fughe in avanti anche dal punto di vista comunicativo. L’obiettivo – ha ricordato – è far crescere tutti i partiti. 

AGI – Anche Papa Francesco ha voluto rendere omaggio al presidente emerito Giorgio Napolitano. Il pontefice è arrivato al Senato, nella camera ardente intorno alle 13 e dopo lunghi minuti di raccoglimento davanti al feretro Papa Francesco ha lasciato palazzo Madama, sempre tra i saluti e gli applausi dei cittadini, come avvenuto al suo arrivo.

Il Pontefice ha fatto ingresso al Senato sulla sedia a rotelle, poi si è alzato in piedi, aiutandosi con il bastone, ed è andato a salutare e rendere omaggio ai familiari di Napolitano: per prima la moglie Clio, anche lei in carrozzella, e i figli Giulio e Giovanni, i nipoti. Quindi Papa Francesco si è intrattenuto in raccoglimento e in preghiera davanti alla bara per diversi e lunghi minuti, per poi tornare a sedersi sulla carrozzella e rimanere ancora a lungo davanti alla bara. L’arrivo del Pontefice al Senato è stato accolto dai cittadini posizionati lungo Corso Rinascimento dietro le transenne da fragorosi applausi.

Il feretro del presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, è giunto questa mattina al Senato, scortato dai corazzieri e accolto davanti a palazzo Madama dal picchetto d’onore. Ad accogliere la salma il presidente del Senato, Ignazio La Russa. Con lui i figli di Napolitano, Giulio e Giovanni, e i nipoti. Pochi minuti prima, a palazzo Madama era giunta la moglie dell’ex Capo dello Stato, Clio. Dopo aver accompagnato il feretro all’interno della sala Nassiriya, La Russa ha lasciato i familiari soli in raccoglimento.

Alle 10 il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è arrivato al Senato e ha reso omaggio alle spoglie mortali del presidente emerito. Accompagnato dalla figlia Laura, Mattarella si è intrattenuto per diversi minuti con i familiari di Napolitano. All’uscita da palazzo Madama, alcuni applausi dei cittadini raccolti dietro le transenne posizionate lungo corso Rinascimento hanno salutato il Capo dello Stato.

Alle 10,20 è giunto il presidente della Camera Lorenzo Fontana. A seguire l’ex presidente del Consiglio, Mario Draghi, e la premier Giorgia Meloni, che si è fermata in raccoglimento davanti al feretro per poi soffermarsi alcuni minuti con i familiari, in particolare il figlio Giulio. La premier ha salutato Draghi, Gianni Letta, l’ex presidente della Camera Gianfranco Fini.

Tra i primi a rendere omaggio al feretro, dopo il Capo dello Stato, sono stati l’ex premier Mario Monti, e gli ex presidenti della Camera Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini. 

Diverse le cariche istituzionali e i parlamentari recatisi nella camera ardente prima dell’apertura al pubblico. Tra costoro l’ex presidente del Senato Piero Grasso, l’ex ministro Anna Finocchiaro, l’ex capogruppo Pd Luigi Zanda, il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri, i leader di Pd e M5s, Elly Schlein e Giuseppe Conte, il commissario europeo per l’economia Paolo Gentiloni, il segretario generale della Cgil Maurizio Landini e il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri.

Alle 11 la camera ardente è stata quindi aperta al pubblico. Si è sviluppata subito una lunga fila di cittadini che attendono di entrare per rendere l’ultimo saluto a Napolitano. La fila si snoda lungo corso Rinascimento, la via che dà sull’ingresso principale di palazzo Madama, e al momento arriva fino alla adiacente chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza. 

La camera ardente rimarrà aperta oggi fino alle 19, per poi riaprire domani, lunedì 25 settembre, dalle 10 alle 16. Il feretro di Napolitano sarà poi traslato a Montecitorio martedì mattina, quando alle 11,30, nell’Aula della Camera, si svolgeranno i funerali di Stato in forma laica.

AGI – “Grave che Berlino paghi le Ong, la Germania non è un Paese amico”. Lo afferma in una intervista a La Stampa, il ministro della Difesa Guido Crosetto. “Ha un approccio ideologico – aggiunge – ci mette in difficoltà. Parigi blocca le frontiere e nessuno dice niente, l’Europa spesso sbaglia strategie”.

Secondo Crosetto, “I problemi del governo, in questo momento, sono l’immigrazione, l’inflazione e l’economia. Su questi grandi temi non possiamo agire da soli”. Agli scafisti, secondo il ministro, “bisogna togliere la certezza di poter condurre i loro traffici senza che nessuno li fermi. Superato un certo limite, diventa quasi un atto di guerra. Serve però un cambio di approccio a livello europeo. Vedo che i francesi bloccano con militari e polizia le frontiere, eppure nessuno dice niente”.

Come fare? “Non si può utilizzare la Marina. Senza una autorizzazione a riportare le persone da dove sono patire, finiremmo per fare il gioco dei trafficanti di esseri umani e il lavoro delle Ong. Gli scafisti vanno tratti alla stregua di criminali internazionali”.

Rispondendo alla domanda sul fatto che la Germania finanzierebbe una Ong per salvare le vite nel Mediterraneo, Crosetto rincara: “È molto grave. Di fronte alla nostra richiesta di aiuto questa è la loro risposta? Noi non ci siamo comportati allo stesso modo quando Angela Merkel convinse l’Ue a investire in Turchia miliardi di euro per bloccare i migranti che arrivavano in Germania dal Medio Oriente”. Crosetto non vede un disegno: “È l’approccio ideologico di una certa sinistra che non tiene conto delle conseguenze delle loro teorie sui popoli. Lo stesso approccio dimostrato dall’ex commissario europeo Frans Timmermans con la sua politica industriale per l’Ue che si rivelerà distruttiva”. 

AGI –  “Sul reddito di cittadinanza abbiamo fatto la cosa giusta e quella che avevamo promesso: distinguere chi può lavorare da chi non può farlo. Chi non può lavorare mantiene il sussidio, chi può lavorare è giusto che abbia lavoro e formazione”. Lo afferma il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in una intervista al Tg1 che andrà in onda questa sera nell’edizione delle 20. 

Per quanto riguarda il superbonus, prosegue Meloni, “parlano i numeri: centoquaranta miliardi di euro di buco tolti alla sanità, all’istruzione, alle pensioni, per ristrutturare le seconde case e anche i castelli”. 

Sul tema del salario minimo, “mi stupisce che l’opposizione scopra oggi la sua utilità, perchè in dieci anni al governo non lo hanno realizzato. Io temo che possa peggiorare la condizione di più lavoratori di quelli ai quali la migliora – conclude – ma aspettiamo la proposta del Cnel”. 

AGI – È morto Giorgio Napolitano. Presidente emerito della Repubblica, si è spento venerdì pomeriggio a Roma presso la clinica Salvator Mundi al Gianicolo. Nato a Napoli il 29 giugno 1925, fu il primo nella storia italiana a essere stato eletto per un secondo mandato al Quirinale, nonché il primo capo dello Stato a essere stato membro del Partito Comunista Italiano e il terzo napoletano dopo De Nicola e Leone. 

Una lunga carriera politica, la sua: è stato presidente della Camera nell’XI legislatura, ministro dell’interno nel governo Prodi I, deputato pressocché stabile dal 1953 al 1996, europarlamentare dal 1989 al 1992 e poi dal 1999 e al 2004. Nel 2005 venne nominato da Carlo Azeglio Ciampi senatore a vita. 

La camera ardente sarà allestita oggi in Senato nella sala Nassiriya di Palazzo Mandam. Domenica si recheranno in visita il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e il presidente del Senato, Ignazio La Russa. E’ quanto si apprende al Senato. Dalle ore 11 alle ore 19 l’accesso sara’ consentito a tutti coloro che vorranno rendere omaggio al presidente della Repubblica emerito scomparso ieri. Lunedi’ la camera ardente sara’ aperta dalle 10 alle 16.

Napolitano avrà funerali di Stato martedi, con una cerimonia laica in piazza Montecitorio, in occasione dei quali sarà dichiarato lutto nazionale. Tra i messaggi di cordoglio giunti dall’estero, spicca quello del segretario di Stato americano, Antony Blinken: “Mi unisco al popolo italiano e al mondo nel lutto per la perdita dell’ex presidente Giorgio Napolitano, uno statista che ha dedicato la sua vita alla democrazia, ai diritti umani e all’unità europea. Le mie più sentite condoglianze alla sua famiglia e al popolo italiano”.

Il ‘re Giorgio’ che piaceva a Washington

Sembra che il grande cruccio della sua vita sia stato quello di non aver mai potuto darsi a tempo pieno al teatro, amore abbandonato dopo gli anni dell’Università. Ma quelli erano anche gli anni delle scelte – tempi di guerra e di fascismo – e Giorgio Napolitano prese un’altra strada. Non che gli sia andata male. Sarebbe infatti diventato undicesimo Presidente della Repubblica e poi – cosa senza alcun precedente, ma solo fino ad allora – persino dodicesimo, tra due ali di folla parlamentare plaudente cui lui nemmeno in quel momento risparmiò un paio di solenni ‘schiaffoni’.

Era il maggio 2013, e lui aveva già sulle spalle la bellezza di 88 primavere. Nemmeno a Sandro Pertini era riuscito di farsi rieleggere a quell’età e sì che ci puntava, forte com’era dell’essere il più amato dagli italiani. Ora, dice un maestro di politica come Guicciardini che bisogna “diffidare di coloro che dicono di essere stanchi dei pubblici impegni, perché sono sempre pronti a tornarvi con la velocità con cui il foco va alle cose secche e ben unte”, e Napolitano aveva fatto sapere per tempo di schifare l’idea di essere confermato.

Sia come sia, egli fu l’ultima spiaggia cui s’attaccò un sistema che reggeva l’anima coi denti. Un sistema che andava emendato, sicuramente migliorato. E lui che era un ‘migliorista’ di nome e per scelta, emendarlo voleva a costo di fare un patto col diavolo. Sarebbe bastato anche un piccolo Malacoda.

Fin da giovane, dell’ala migliorista, appunto, del Partito Comunista aveva fatto parte: il progresso della sinistra si fa sposando Rousseau con Diderot, Enciclopedia e menti illuminate. Riforme, come Filangieri e Genovesi: la Napoli settecentesca, culminata nella Repubblica Giacobina.

Il giorno della rielezione

Ma facciamo un passo alla volta, per favore: è più sicuro. In quei tempi – quelli della rielezione – il Pd di Bersani era arrivato primo alle elezioni, ma non le aveva vinte: gli mancava un punto a far tombola e si ritrovò con la ‘mucca in corridoio’. Complice la fretta e la fronda interna ai democratici, guidata da uno scalpitante quanto giovane sindaco di Firenze, ecco che il Pd s’incarta sui nomi, porta Marini che viene silurato, Prodi che viene giubilato e quindi – inevitabilmente – gli si ingolfa il motore.

A quel punto tutti con il cappello in mano da Napolitano, che da sei mesi andava dicendo che non se ne sarebbe nemmeno parlato: invece venne rieletto alla prima botta, con giubilo e sollievo degli astanti. Lui si presenta alle Camere e dice, in sostanza, che resterà solo se finalmente verranno varate le riforme, e che tanto lui di loro non si fidava per nulla.

Insensibili alla ‘sgargamella’, da grandi incassatori, maggioranza e opposizioni continuarono ad applaudire: avevano capito che era iniziata l’era di ‘Re Giorgio’, ma anche che sarebbe durata poco. È l’eterna storia della Palude e della Fronda Parlamentare: non c’è re che non la tema, e ne ha ben donde.

Re Giorgio’ era detto così ben da prima del 2013: vuoi per il suo fare distinto, vuoi per una vaga somiglianza, vuoi, infine, perché era uno dei pochi politici italiani in grado di prendere il tè con la Regina senza far scivolare la tazzina tra le dita. Anzi, facendo un figurone grazie ad un inglese più che forbito. Insomma, un gentiluomo di movenze britanniche e di eleganza partenopea: quella che non colpisce ma resta impressa. Per l’appunto Filangieri e Genovesi, Cuoco e Caracciolo.

Il comunista preferito di Kissinger

Riformista, illuminista. Ma con un tocco di anglofilia che, più che a Nelson e ai suoi cannoneggiamenti antirivoluzionari e antipartenopei, lo fa piuttosto accostare a Lord Acton. Non è un caso se lui, primo ex comunista a divenire ministro dell’Interno e poi Presidente, potesse vantare amici ed ammiratori persino a Washington. Nemmeno Henry Kissinger era immune dal suo delicato fascino, e lo chiamava “il mio comunista preferito”.

Per dire: quando nel luglio 2009 sbarca al Quirinale Barack Obama, e a Palazzo Chigi Silvio Berlusconi è lì tutto pronto a spalancargli le braccia, è semmai Napolitano a ricevere il complimento più ambito. “Lei ha una reputazione meravigliosa, non solo per la sua carriera politica ma anche per la sua integrità e gentilezza.

È un leader mondiale che rappresenta al meglio il suo Paese” si sente dire dall’Illustre Ospite. L’altro, a Palazzo Chigi, abbozza ma non è per niente di buon umore.

L’amore viene ricambiato: Napolitano e Obama si vedranno, ora da una parte ora dall’altra dell’Oceano, altre quattro volte. E a New York il Presidente italiano sarà sempre accolto volentieri dal Council on Foreign Relations, e non c’è bisogno di dir altro.     

Nessuno lo avrebbe mai immaginato, fino almeno alla fine degli anni ’70, quando cioè gli Usa ancora negavano il visto a un Enrico Berlinguer. Ma fu lui, Napolitano, il primo esponente di spicco del Pci a vedersi stampare sul passaporto il timbro rosso e blu con la scritta “visa”.

Perdonata era stata, finalmente, quell’intemperanza giovanile che lo aveva portato nel 1956 a scrivere sull’Unità un articolo giustificatorio della repressione della Rivolta d’Ungheria. Qualcuno se ne ricordò, di quell’articolo, all’epoca della prima elezione al Quirinale e andò a dar fastidio a Francesco Cossiga: presidente emerito, acceso anticomunista ed amico di Nagy, Maleter ed Edgardo Sogno. Si aspettava, il giovane ed illuso provocatore, di poter ascoltare un bell’attacco a viso aperto, ma ci rimase male: Cossiga aveva già capito tutto e quindi elogiò a gran voce il successore. Vecchia volpe, vecchio conoscitore di rotte atlantiche.

Nel suo primo mandato, Napolitano aveva legato il suo nome a due circostanze: la lotta alle morti sul lavoro e i festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia. La prima fu autentica battaglia di civiltà, di cui in molti dovrebbero essergli grati. Però ancora adesso le morti bianche sono più di mille all’anno. Diverso il discorso sull’Unità d’Italia: bisogna dire che, andando a memoria d’uomo, è raro trovare un momento nella storia repubblicana in cui il Quirinale sia stato tanto popolare. Tra l’85 ed il 90 percento nei sondaggi. Ragazzi, che roba.

Il segreto di tanto successo sta forse nel fatto che, dopo tre lustri passati a dividersi, odiarsi ed insultarsi, sotto sotto gli italiani desideravano sentirsi dire che essere uniti è bello e giusto. A segnare la svolta fu una serata sanremese dedicata all’Inno di Mameli, condotta, interpretata e ‘tiranneggiata’ da Roberto Benigni. Ascolti da favola, 50 per cento di share e gli italiani che vanno a letto quella sera migliori, un pò, di quanto fossero la mattina. Capita di rado.

Napolitano, felice, ringrazia: il dvd di quella serata viene distribuito in tutte le scuole d’Italia. È presumibilmente questo il momento in cui si decide che a succedergli al Quirinale sarà sempre lui, ma chi lo sa. Ad ogni modo, una volta rieletto Napolitano come primo atto fa secco il suo grande elettore, cioè Bersani: gli offre non l’incarico per la formazione di un nuovo governo, come lui si invece si aspetta, ma un “preincarico”, formula non priva di ambiguità con pochissimi precedenti costituzionali.

Il sogno infranto delle riforme

Quando, come previsto, Bersani prende atto che non è cosa, sbarca a Roma Matteo Renzi, e qualcuno allora pensa alla manfrina. Ma é l’aria che tira, e Napolitano l’ha annusata fin da subito. Nuovi tempi, si spera anche per fare le riforme. Anzi, facciamole: vuoi mettere Filangieri. Il suo sostegno all’esecutivo dell’intraprendente nuovo protagonista della scena, succeduto a Palazzo Chigi a Enrico Letta, è talvolta molto accentuato, non privo di ‘tirate d’orecchie quando il caso lo consiglia. Il tandem, comunque, funziona, e la popolarità di entrambi schizza a livelli mai visti, almeno per un po’. Mica per molto, però: anzi, solo per pochino. Lo Spirito hegeliano antirivoluzionario non del Tempo, ma della neghittosa nazione riprende il sopravvento, la palude non si lascia trascinare via dal torrente, i montagnardi si scoprono con i piedi nel pantano.     

E le riforme, sogno e chimera di ogni migliorista, languono. Oddio: passeranno, ma poi sarà il popolo, nel nome della più russoviana delle democrazie dirette esercitate per mezzo di referendum, a bocciar tutto. Malacoda finirà in un men che non si dica nelle fauci di Berlicche. Napolitano a questo punto si sente stanco, all’improvviso. Da anni ha problemi di camminata, la testa sta più che bene ma la schiena si inarca e la pelle si fa trasparente. Interviene lei, la moglie Clio, che parla poco ma si fa sentire.

Gli anni sono 90. Le immagini dei due che lasciano il Colle, questa volta definitivamente, ci mostrano la prima che quasi sostiene il secondo mentre si avviano alla macchina. Lui ha uno sguardo quasi perso, e non può non suscitare anche un tocco di malinconica e profonda simpatia. Quella che si avverte per chi, in fondo, non ci è riuscito. No, non è un Paese per miglioristi, e nemmeno per giacobini. Alla fine ci sarà sempre, a Roma, un cardinal Consalvi.

 

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