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AGI – Per decenni, gli scienziati hanno utilizzato una pietra miliare psicologica chiamata “Test dello specchio” per valutare la capacità di un animale di riconoscere visivamente se stesso. Ora il test ha un nuovo laureato: il topo! Secondo un nuovo studio appena pubblicato sulla rivista specializzata Neuron, la capacità dei topi di riconoscere il proprio riflesso deriva da un sottogruppo di neuroni.

Gli scienziati del Centro Medico dell’Università del Texas del Sudovest, in particolare, hanno osservato che i topi con pelliccia nera, quando marcati con un punto di inchiostro bianco sulla fronte, trascorrono più tempo a pulire la testa di fronte allo specchio, presumibilmente cercando di rimuovere la macchia di inchiostro.

Tuttavia, questa “auto-consapevolezza” è stata osservata solo nei topi abituati allo specchio, che avevano socializzato con altri topi simili e se la macchia di inchiostro era abbastanza grande. Il team di ricerca ha quindi individuato tra questi topi un gruppo di neuroni nell’ippocampo che sono coinvolti nello sviluppo e nell’archiviazione di questa immagine visiva di sé, offrendo così uno sguardo iniziale sui meccanismi neurali dietro il riconoscimento di se’, un mistero nella ricerca neurocomportamentale.

Il neuroscienziato e autore principale dello studio, Takashi Kitamura del Centro Medico dell’Università del Texas del Sudovest spiega: “Per formare la memoria episodica, ad esempio, degli eventi nella nostra vita quotidiana, il cervello forma e conserva informazioni su dove, cosa, quando e chi, e il componente più importante è l’informazione o lo stato di sé. Gli studiosi di solito esaminano come il cervello codifica o riconosce gli altri, ma l’aspetto dell’auto-informazione è oscuro“.

I ricercatori hanno utilizzato uno specchio per testare se i topi potessero rilevare un cambiamento nella propria apparenza, in questo caso, una goccia di inchiostro sulla fronte. Poiché l’inchiostro forniva anche uno stimolo tattile, i topi con pelliccia nera sono stati testati sia con inchiostro nero che bianco. 

Anche se il test dello specchio e’ stato originariamente sviluppato per testare la coscienza in diverse specie, gli autori notano che i loro esperimenti mostrano solo che i topi possono rilevare un cambiamento nella propria apparenza, ma ciò non implica automaticamente che siano “autoconsapevoli”. Hanno scoperto che i topi potevano rilevare i cambiamenti nella loro apparenza solo in determinate condizioni. I topi familiarizzati con gli specchi trascorrevano significativamente piu’ tempo a pulire la testa (ma non altre parti del corpo) di fronte allo specchio quando erano marcati con gocce di inchiostro bianco di 0,6 cm2 o 2 cm2. Tuttavia, i topi non aumentavano la pulizia della testa quando l’inchiostro era nero – dello stesso colore della loro pelliccia – o quando la macchia di inchiostro era piccola (0,2 cm2). I topi non abituati agli specchi prima del test dell’inchiostro non mostravano un aumento della pulizia della testa in nessuno scenario.

“Per superare il test dello specchio, i topi richiedevano significativi stimoli sensoriali esterni: dovevamo mettere molta inchiostro sulle loro teste, e poi lo stimolo tattile proveniente dall’inchiostro in qualche modo consentiva all’animale di rilevare l’inchiostro sulle loro teste attraverso un riflesso speculare,” afferma il primo autore Jun Yokose del Centro Medico dell’Università del Texas del Sudovest. “Scimpanze’ e umani non hanno bisogno di alcuno di questi stimoli sensoriali extra”. Utilizzando la mappatura dell’espressione genica, i ricercatori hanno identificato un gruppo di neuroni nell’ippocampo ventrale che venivano attivati quando i topi “si riconoscevano” allo specchio.

Quando i ricercatori resero non funzionali selettivamente questi neuroni, i topi non mostrarono piu’ il comportamento di pulizia indotto da specchio e inchiostro. Un sottoinsieme di questi neuroni rispondenti al se’ si attivava anche quando i topi osservavano altri topi della stessa stirpe (e quindi di aspetto fisico e colore della pelliccia simili), ma non quando osservavano topi di una stirpe diversa con pelliccia bianca. Poiché studi precedenti su scimpanzé hanno suggerito che l’esperienza sociale è necessaria per il riconoscimento di sé allo specchio, i ricercatori hanno anche testato topi che erano stati isolati socialmente dopo lo svezzamento.

Questi topi isolati socialmente non mostravano un comportamento eccessivo di pulizia della testa durante il test dell’inchiostro, e lo stesso valeva per i topi con pelliccia nera che erano stati allevati insieme a topi con pelliccia bianca. L’analisi dell’espressione genica ha mostrato che i topi isolati socialmente non sviluppavano attività neuronale rispondente al sé nell’ippocampo, e nemmeno i topi con pelliccia nera che erano stati allevati da topi con pelliccia bianca, suggerendo che i topi hanno bisogno di esperienze sociali con topi simili nell’aspetto per sviluppare i circuiti neurali necessari per il riconoscimento di se’.

AGI –  Uno studio condotto da ricercatori spagnoli e turchi ha messo in luce un nuovo aspetto della crescente preoccupazione climatica, mettendo in evidenza il ruolo chiave dei batteri Vibrio nell’insorgere di epidemie letali che colpiscono le spugne marine.

I batteri Vibrio, noti per il loro caratteristico movimento vibrante, sono diffusi in ambienti salmastri e marini, sia come nuotatori liberi che come patogeni o simbionti in pesci, crostacei, molluschi e coralli. La loro predilezione per le temperature elevate li rende particolarmente adatti a prosperare nei cambiamenti climatici in corso. Questo studio, pubblicato su Frontiers in Microbiology, ha rivelato che i Vibrio non solo sono legati allo sbiancamento dei coralli, ma giocano anche un ruolo inaspettato nelle epidemie che colpiscono le spugne marine.

Il dottor Manuel Maldonado, uno dei ricercatori coinvolti nello studio, spiega: “Mostriamo che i batteri Vibrio patogeni erano abbondanti negli individui malati della spugna marina pungente scura, durante un’epidemia mortale osservata per la prima volta alla fine del 2021 nel Mar Egeo”.

La spugna marina pungente scura, un organismo marino sessile, è stata oggetto di un’epidemia misteriosa segnalata per la prima volta nella costa turca. La sua diffusione ha attirato l’attenzione del coautore Dr. Fikret Ondes, professore associato presso l’Università di Izmir Katip Celebi, che ha immediatamente coinvolto i colleghi per indagare sulla nuova malattia. Durante le immersioni successive tra agosto e dicembre, i ricercatori hanno studiato 117 spugne marine pungenti scure al largo di Seferihisar sulla costa turca del Mar Egeo. I risultati hanno rivelato che, in individui malati e morenti, erano presenti tre specie di Vibrio: V. fortis, V. owensii e V. gigantis. 

“La vibriosi potrebbe essere un’infezione secondaria che peggiora il corso della malattia, ma non è l’agente eziologico primario. Ulteriori ricerche basate sulla metagenomica degli individui malati sono necessarie per risolvere questo”, ha dichiarato Maldonado.

L’osservazione cruciale è stata che la malattia non è stata osservata oltre ottobre, suggerendo un legame diretto con le temperature elevate che caratterizzano il periodo estivo. Gli studiosi speculano che gli stessi patogeni potrebbero aver causato la morte simultanea di coralli d’acqua bassa nel nord dell’Egeo, ma ulteriori studi sono necessari per confermare questa ipotesi.MIl dottor Ezgi Dincturk del Dipartimento di Acquacoltura dell’Università di Izmir Katip Celebi sottolinea: “Il cambiamento climatico sta attualmente influenzando gli ecosistemi marini, compresa la temperatura dell’acqua, e questi cambiamenti sembrano influenzare la dinamica delle malattie nelle spugne e nei loro patogeni”.

La salute delle spugne marine è cruciale per gli ecosistemi marini, poichè contribuiscono alla penetrazione della luce, assorbono e rilasciano nutrienti e fungono da rifugi per una vasta gamma di organismi. Le epidemie di malattie come questa, legate al cambiamento climatico, possono avere impatti significativi sull’equilibrio delicato di questi ecosistemi. Questo studio pone l’accento sulla necessità di affrontare il riscaldamento globale e le sue conseguenze, non solo per la salute del nostro pianeta, ma anche per la sopravvivenza di organismi vitali nei nostri oceani.

AGI – Un giorno di alcuni anni fa un manager di una delle più prestigiose case automobilistiche del mondo si presentò negli uffici della Dallara con un problema. I suoi tecnici, ma soprattutto la proprietà, erano stufi di schiantare auto da tre milioni di euro contro un muro sperando che prima o poi riuscissero a passare il test per l’omologazione e sapevano che tra le quattro mura dello stabilimento di supercar di Varano de’ Melegari, alle porte di Parma, qualcuno poteva avere la soluzione. Anzi: sapevano che era proprio questo l’approccio con cui alla Dallara si rapportavano ai fornitori: illustrare il problema e chiedere la soluzione.

Dallara era da tempo fornitore del suddetto marchio: di fatto nei suoi impianti si realizzavano e si realizzano ancora tutte le parti in carbonio e sono state disegnate l’aerodinamica e studiati i più piccoli dettagli per rendere la vettura performante. Ma restava da sciogliere il nodo dell’omologazione, che stava tra un’auto costosissima e un muro di cemento armato.

Poni il problema, trova la soluzione

Sapevano che alla Dallara avevano a disposizione una potenza di calcolo che poche altre aziende possono vantare e decisero di mettersi nelle loro mani. Presentato il problema, trovassero loro la soluzione. E la soluzione fu trovata: sfruttando i supercomputer che Lenovo ha messo a disposizione di Dallara e che risiedono in un edificio accuratamente climatizzato (con minimo impatto ambientale, però) individuarono il problema e presentarono alla Prestigiosa Casa Automobilistica la modifica da fare. Nel test successivo tre milioni di euro si schiantarono brillantemente contro un muro e fu un successo.

Questo piccolo (e costosissimo) episodio racchiude in sé la filosofia stessa di un posto come Dallara, la fabbrica di auto da corsa e supercar che in pochi anni, sotto la guida di Andrea Pontremoli, è passata dall’essere artigianato di lusso a icona di innovazione. Di più: punto di riferimento di un’intera filiera, quella della Motor Valley.

Dallara, gli appassionati lo sanno, produce a suo marchio una sola vettura, la Stradale, in due versioni. Un gioiellino che si può portare a casa per una cifra compresa tra i 180 e i 250 mila euro, ma soprattutto produce le vetture impegnate nei circuiti di tutto il mondo: dalla Formula 2 alla 3, alle E (la elettrica) fino alla Indie e alle più iconiche competizioni americane.

Le regine delle corse

Ogni fine settimana sulle piste di tutto il mondo corrono 300 auto realizzate in questa fabbrica. Il cuore e l’immaginazione di tutto è nell’edificio voluto dall’ingegner Giampaolo Dallara a due passi dal borgo natio – e che contiene anche uno straordinario museo di auto da sogno – ma il cervello è in una serie di rack che contiene i macchinari di Lenovo.

Una collaborazione che risale al 2012 e che funziona su un principio semplice: i progettisti presentano un problema, gli informatici – in questo caso Lenovo – devono risolverlo. Adesso, ad esempio, le due aziende lavorano sull’uso dell’Intelligenza artificiale per eliminare i tempi morti nel sistema: qui si ha a disposizione una manciata di mesi per mettere a punto una vettura da corsa e portarla in pista. Le altissime pretese di una realtà come Dallara trovano poi applicazione in ambiti diversi, come previsioni del tempo sempre più precise.

I supercomputer alla prova

Si chiama high performance computing e dei primi 500 siti per potenza di calcolo in cui viene utilizzato, un terzo impiega macchine Lenovo. “Il team che lavora con Dallara”, dice Alessandro de Bartolo, country general manager ISG di Lenovo, “è quello che ha sviluppato i progetti per i fondi del Pnrr per potenziare le capacità italiane di supercomputing”.

“Il tema” dice da parte sua Pontremoli, Ceo di Dallara, “è usare la tecnologia esistente per cose per le quali non sono state pensate. La tecnologia che abbiamo a disposizione è molto di più di quella che usiamo e la soluzione ai problemi è nel modo diverso di utilizzarla”. E la Motor Valley, questo panorama di 8 brand famosi in tutto il mondo – da Ferrari a Ducati, da Lamborghini a Dallara – e 16.500 piccole realtà che nel loro campo sono le migliori, sfrutta al massimo la tecnologia pur mantenendo un approccio artigianale. “Per un’azienda è importante trovare dei fornitori che siano i numeri uno per passare da un ‘egosistema’, ossia autoriferito, a un ecosistema. Questo permette di dare un’ulteriore spinta all’innovazione, grazie allo scambio di informazione: basti pensare che il 30% delle idee innovative viene dall’interno dell’azienda e quasi il 70% dai fornitori. Solo una parte residuale viene dalle università”.

Salvaguardare il modello formativo italiano

Eppure proprio sull’università e sulla formazione Dallara ha investito molto, partecipando alla creazione di quel programma che mette insieme i quattro atenei dell’Emilia Romagna e ha portato alla nascita di lauree specialistiche le cui lezioni si svolgono all’interno dell’azienda, come avviene proprio alla Dallara. “Bisogna salvaguardare il modello formativo italiano” dice Pontremoli “che non è iperspecialistico come quello statunitense. Questo permette ai nostri giovani di adattarsi più velocemente di altri alle nuove sfide professionali”.

Un modello che parte da lontano, dalla scuola elementare e media, con il progetto F1 in Schools Italia (di cui anche Lenovo è partner, oltre che technology partner F1)che coinvolge bambini e ragazzi dai 10 ai 16 anni strutturandoli in scuderie che devono affrontare il tipo di problema che i team reali devono gestire.

“L’innovazione non è costo più profitto” dice Pontremoli, “ma è un valore che cambia con il cambiare delle condizioni. Il prezzo dell’innovazione è legato al valore e il valore non è legato al costo. Qui, ad esempio, usiamo la tecnologia per sbagliare. Dal foglio bianco all’auto in pista passano nove mesi: otto sono in virtuale e uno solo è con il modello reale. Usiamo modelli matematici, sfruttiamo i dati che raccogliamo in pista, usiamo i simulatori per guidare auto che non sono mai state costruite”.

Ma la sfida più ardua è sempre quella che deva ancora venire. “Sta avanzando un altro modello molto più potente che è l’open innovation” aggiunge Pontremoli, “siamo sempre, costantemente in ritardo. La velocità è sempre più alta e la tecnologia sempre più profonda e l’open innovation lavora sul presupposto che la tecnologia per fare quello che serve esiste e che la domanda da porsi è: ‘cosa vogliamo fare?’. La vera innovazione è pensare a cosa vorremmo fare senza avere l’alibi del limite tecnologico”.

AGI – In un articolo pubblicato sulla rivista ‘Cell Reports Sustainability’, l’economista finanziario Alex de Vries fornisce la prima stima completa dell‘uso dell’acqua da parte di Bitcoin, evidenziando come il mining di criptovalute stia contribuendo in modo significativo alla crisi idrica globale.

L’esperto avverte che, se non verranno introdotti limiti, l’attività potrebbe influire negativamente sull’approvvigionamento di acqua potabile, soprattutto nei paesi già alle prese con la scarsità d’acqua, come gli Stati Uniti. La ricerca precedente si è concentrata principalmente sul consumo di elettricità da parte delle criptovalute, ma de Vries ha analizzato l’uso dell’acqua nel mining di Bitcoin. Quando i miner di tutto il mondo competono per risolvere equazioni matematiche su Internet, vengono sfruttati enormi quantità di potenza di calcolo.

De Vries calcola che il mining di Bitcoin consumi circa da 8,6 a 35,1 gigalitri (GL) d’acqua all’anno negli Stati Uniti, utilizzati principalmente per raffreddare i computer nei grandi data center. De Vries stima che nel 2021 il mining di Bitcoin abbia consumato oltre 1.600 GL di acqua a livello mondiale. Ogni transazione sulla blockchain di Bitcoin richiede in media 16.000 litri d’acqua, circa 6,2 milioni di volte più di uno swipe con la carta di credito.

Si prevede che il consumo d’acqua di Bitcoin aumenterà a 2.300 GL nel 2023. Negli Stati Uniti, il mining di Bitcoin utilizza circa da 93 a 120 GL di acqua ogni anno, equivalente al consumo medio di acqua di 300.000 famiglie statunitensi o di una città come Washington, D.C. L’aumento delle attività di mining di Bitcoin in paesi dell’Asia centrale, già sotto pressione per la scarsità d’acqua, potrebbe peggiorare il problema.

In Kazakhistan, un importante centro di mining di criptovalute, le transazioni di Bitcoin hanno consumato 997,9 GL di acqua nel 2021, aggravando la crisi idrica del paese. De Vries suggerisce che modificare il software del mining di Bitcoin potrebbe ridurre il consumo di energia e acqua. Inoltre, l’adozione di fonti di energia rinnovabile, come eolica e solare, potrebbe contribuire a ridurre l’impatto ambientale. In conclusione, l’esperto sottolinea che, nonostante l’attuale aumento del valore di Bitcoin, è essenziale considerare le conseguenze ambientali e valutare soluzioni sostenibili per mitigare l’impatto del mining di criptovalute sulle risorse idriche globali. 

AGI – Il numero delle vittime di estorsioni informatiche è aumentato del 46% nel 2023. Lo rivela il rapporto annuale di Orange Cyberdefense, la filiale di sicurezza informatica del gruppo Orange telecom, che impiega 3.000 esperti in più di 12 paesi.

Le grandi aziende sono le più colpite dalle estorsioni informatiche (40% dei casi), seguite da quelle piccole (25%) e medie (23%), rileva lo studio, che riunisce dati globali tra ottobre 2022 e settembre 2023.

“Le PMI sono sempre più prese di mira: rappresentano il 48% delle vittime, 8 punti in più rispetto al 2022”, ha commentato all’AFP Hugues Foulon, amministratore delegato di Orange Cyberdefense, uno dei leader europei nella sicurezza informatica.

Le minacce di estorsione informatica consistono nell’estorsione di denaro a una vittima attraverso azioni informatiche (crittografia dei dati, divulgazione di dati riservati, blocco dell’accesso, ecc.). Più della metà delle organizzazioni vittime di estorsioni informatiche hanno sede negli Stati Uniti, ma il loro numero è quasi raddoppiato in India (+97%), Oceania (+73%) e Africa (+70%).

La Francia, al 13° posto e quindi lontana dall’essere tra i paesi più colpiti nel 2022-2023, ha così vissuto un’ondata di attacchi ransomware, che hanno paralizzato grandi ospedali (Versailles, Corbeil-Essonnes) e comunità, tra cui Marsiglia e Lille. Gli aggressori sono sempre di più: nel 2023, se sono scomparsi 25 gruppi di hacker specializzati in cyberestorsioni, 23 sono sopravvissuti da un anno all’altro e ne sono emersi 31 nuovi.

Oltre alla lusinga del profitto, sempre più cyberattaccanti sono motivati ​​da cause ideologiche o politiche. Questi “hacktivisti”, contrazione di hacker e attivisti, utilizzano tecniche di spionaggio, sabotaggio, disinformazione ed estorsione. Prendono di mira in particolare l’Europa, che ha subito l’85% degli attacchi nel 2023, seguita dal Nord America (7%) e dal Medio Oriente (3%).

La maggior parte dei paesi colpiti da attacchi su larga scala sono geograficamente vicini alla guerra contro l’Ucraina: la stessa Ucraina, la Polonia e la Svezia sono stati i paesi più colpiti, sottolinea questo rapporto realizzato prima dell’inizio della guerra tra Israele e Hamas.

Si tratta nella maggior parte dei casi di attacchi Denial of Service (un’ondata di richieste che congestionano i sistemi informatici), ma anche di attacchi volti a modellare le percezioni attraverso false informazioni. Tra i gruppi più attivi, i russofoni NoName057  e Anonymous Sudan.

AGI – La metropolitana di Parigi ha lanciato un’applicazione di traduzione istantanea in vista dei Giochi Olimpici del prossimo anno per aiutare i visitatori stranieri a navigare nel complesso sistema di trasporto urbano della capitale francese. Quella della città francese è una rete composta da più di 300 stazioni i cui nomi possono essere difficili da trovare o da pronunciare anche per i nativi. Un intricato labirinto che si trasforma facilmente un incubo per chiunque non abbia un francese fluente. 

Le Olimpiadi estive, che si terranno nella capitale francese tra il 26 luglio e l’11 agosto, porteranno nella capitale milioni di visitatori che non conoscono il francese e nemmeno l’inglese, la maggior parte dei quali utilizzerà i mezzi pubblici per fare la spola tra gli impianti sportivi. Per questo è arrivata Tradivia, un’applicazione di traduzione istantanea in grado di gestire 16 lingue, e che l’operatore della metropolitana (RATP) ha fornito a 6.000 dipendenti impiegate nelle varie fermate.

L’applicazione traduce in francese, attraverso domande espresse tramite vocali, anche in inglese, tedesco, mandarino, hindi e arabo, a beneficio degli impiegati, le cui risposte vengono poi tradotte nuovamente nella lingua del visitatore. “Avevamo un problema reale, perché non si può pretendere che i nostri agenti rispondano alle domande in tutte le lingue“, ha dichiarato Valerie Gaidot, responsabile della customer experience dell’azienda parigina.

L’applicazione è stata specificamente adattata all’esperienza della metropolitana di Parigi e conosce i nomi delle stazioni, gli itinerari e i vari tipi di biglietti e abbonamenti che possono lasciare i turisti disorientati e desiderosi di non perdere neanche un momento dell’evento più atteso della prossima estate.

Per le autorità francesi si tratta di consegnare agli utenti un prodotto molto migliore rispetto a qualunque altro servizio di traduzione generale offerto, ad esempio, da Google Translate, che a volte non riesce a cogliere alcuni dettagli o possibili idiosincrasie. 

Dopo essere stato sperimentato per la prima volta su tre linee urbane, l’operatore ha introdotto il servizio su tutta la rete nel corso dell’estate. Inoltre, quattro lingue – inglese, tedesco, italiano e spagnolo – sono attualmente disponibili per gli annunci speciali sulle piattaforme, mentre il mandarino e l’arabo saranno aggiunti prima delle Olimpiadi. Un bel passo in avanti in vista dei 15 milioni di visitatori che sono attesi a Parigi e nelle regioni circostanti per i Giochi Olimpici e Paralimpici estivi.

AGI – Gli scacchi hanno alle spalle una storia millenaria ma continuano ad avere un ruolo decisivo nel campo delle intelligenze artificiali. L’evoluzione dei motori scacchistici, dai primi modelli IBM in poi, è stata importante nelle applicazioni dei vari modelli di machine learning e deep learning e, come spiega un articolo di Quanta Magazine, potrebbe avere un ruolo molto attivo in un nuovo tipo di approccio chiamato “artificial brainstorming”.

Ma andiamo con ordine. Al centro di questa storia ci sono un uomo, Tom Zahavy, ricercatore informatico israeliano che lavora per DeepMind, e una macchina, AlphaZero ‘diversified version’, sviluppata specificatamente per affrontare dei problemi con una cassetta degli attrezzi più ampia e, come suggerito dal suo nome, diversificata nelle sue componenti.

L’importanza dei puzzle

Zahavy, come tanti appassionati, ha riscoperto gli scacchi durante la pandemia approfondendo soprattutto le tematiche relative ai motori, alle intelligenze artificiali e alla capacità dei computer di risolvere gli aspetti più complicati del gioco. E come tanti si è accorto di essere più bravo nella risoluzione dei singoli ‘puzzle’ che nelle partite vere e proprie. Ha capito, cioè, di essere abile nel trovare la risposta ai cosiddetti ‘problemi’ creati a partire da posizioni specifiche, spesso tratte da partite reali ma anche da idee artificiose e improbabili, e che servono in generale per affinare le qualità dello scacchista in tema di tattica e comprensione del gioco.

I’m super excited to share AlphaZeroᵈᵇ, a team of diverse #AlphaZero agents that collaborate to solve #Chess puzzles and demonstrate increased creativity. Check out our paper to learn more!https://t.co/NveOuYmF6y
A quick (1/n) pic.twitter.com/mMiMWmaauX

— Tom Zahavy (@TZahavy)
August 21, 2023

Ma i puzzle sono stati determinanti anche nello sviluppo dei motori scacchistici perché, nel corso del tempo, hanno contribuito a rivelare i loro limiti più nascosti. E questo è stato anche il punto di partenza di Zahavy. “Stavo cercando di capire cosa rende alcune di queste posizioni così difficili per i computer quando, almeno alcune di esse, possono essere risolte dagli esseri umani”. Nel sostenere questa tesi ha citato un puzzle famosissimo, ideato dal matematico Roger Penrose nel 2017 (premio Nobel per la Fisica nel 2020), in cui si dispongono sulla scacchiera i pezzi Neri più forti (come regina e torri) ma collocandoli in ‘case’ di non semplicissima lettura.

Un grande maestro, giocando con i pezzi Bianchi, potrebbe facilmente arrivare a pattare (pareggiare) la partita mentre potenti programmi di scacchi, non riuscendo a cogliere queste possibilità in toto, sarebbero portati a dedurre che il Nero abbia un chiaro vantaggio e quindi possa portare a casa la vittoria. Questa differenza di analisi, secondo Zahavy, suggerisce come i computer, seppur in grado di sconfiggere i migliori giocatori ‘umani’, abbiano ancora diversi limiti nel riconoscere e risolvere un certo tipo di problemi. La sua idea, per superare queste difficoltà, è molto semplice: ideare sistemi di intelligenza artificiale dotati di un ampio spettro di possibili comportamenti volti a superare il modello basato sulla singola esecuzione. E che soprattutto “lavorino in gruppo” per fare progressi e trovare la migliore soluzione.

Grazie all’aiuto di alcuni colleghi, Zahavy ha sviluppato un modello per unire insieme più sistemi di intelligenza artificiale, fino a un massimo di 10, partendo dall’algoritmo più potente a disposizione, AlphaZero. Questi sistemi sono tutti caratterizzati da una forte impronta decisionale ma ognuno è stato ottimizzato e addestrato nell’adottare strategie differenti. Questo nuovo modello non solo ha dimostrato di funzionare meglio di AlphaZero nel gioco classico ma si è rivelato anche più abile nell’affrontare problemi complessi come quelli proposti da Penrose.

E tutto nel modo più semplice: nel momento in cui un sistema si fosse trovato davanti a un ‘muro’ invalicabile, il programma sarebbe passato al successivo fino a trovare il modo più efficace di arginare il blocco. Non è difficile comprendere come tutto ciò possa applicarsi a situazioni esterne agli scacchi per rivelarsi assai utile nello sviluppo di tutti gli algoritmi che si occupano di intelligenza artificiale.

Puzzle of the Day: In addition to winning the Nobel in Physics, Roger Penrose wanted to understand what consciousness was. So he created a chess puzzle . The fastest computer in the world thinks Black is winning but humans can spot White’s draw instantly. White to play and draw. pic.twitter.com/65q3bsi3yL

— James Altucher (@jaltucher)
October 7, 2020

Come ragiona (finora) un motore di scacchi

Da sempre Zahavy si è interessato a quello che viene chiamato ‘reinforcement learning‘, ovvero il sistema che utilizza le reti neurali per apprendere alcuni compiti attraverso tentativi ed errori, percependo e comprendendo l’ambiente che lo circonda e ricevendo ‘ricompense’ ad ogni nuovo traguardo. È la base da cui partono i programmi di scacchi più potenti ma è anche utilizzato in molti altri campi come quello delle auto a guida autonoma. Il motore arriva a comprendere in maniera sempre più profonda la situazione presente sulla scacchiera e le possibili ‘mosse candidate’, ovvero quelle da prendere in considerazione perché ritenute più forti.  A quel punto è in grado di intraprendere azioni sempre più precise per avvicinarsi all’obiettivo finale, accumulando ‘ricompense’ e migliorando le prestazioni.

Deepmind, ha spiegato, ad esempio, come AlphaZero sia stato protagonista di un lungo percorso di perfezionamento iniziato nel 2017 con 44 milioni di partite giocate contro se stesso nelle prime 9 ore di allenamento. Ed è proprio questa infinita sequela di prove e tentativi ad averlo reso più forte di qualsiasi giocatore di scacchi in carne e ossa.

Romualdo Vitale, direttore italiano di Chess.com, la più nota e usata piattaforma online, si è laureato in matematica con una tesi proprio su Reinforcement Learning e Alphazero e all’AGI ne racconta potenzialità e limiti. “Quando AlphaZero è stato pubblicato, nel 2017, ha sconvolto il mondo scacchistico senza che i giocatori percepissero davvero la portata della sua rivoluzione.

Alcuni grandi maestri (GM) compreso Hikaru Nakamura, sono rimasti scettici di fronte al match giocato contro Stockfish (un altro forte motore, ndr) perché sostenevano che quest’ultimo fosse stato depotenziato. Ma non avevano capito che il punto della questione risiedeva nell’approccio innovativo basato proprio sul reinforcement learning e sul giocare contro sé stessi un numero incredibile di volte e non su quanto quella sfida potesse essere corretta o meno”.

Un punto che invece non è sfuggito agli esperti di Intelligenza artificiale. “Hanno capito l’importanza di un metodo che porta risultati eccellenti attraverso una tecnica, se vogliamo, semplice. Il problema del reinforcement learning è che bisogna costruire bene il sistema di ricompense altrimenti si rischiano dei buchi che possono essere rappresentati appunto dai problemi di Penrose”, spiega Vitale. “Un meccanismo costruito per dare ricompense positive può portare alla sopravalutazione di una posizione e a non cogliere un aspetto che, intrinseco nella posizione stessa, può richiedere molta capacità di astrazione. Un aspetto che non può essere compreso attraverso solamente il calcolo o l’esperienza”.

Un po’ quello che fa Alphazero che “quando si trova in una determinata posizione inizia a giocare tante partite contro sé stesso per comprenderla. Ma creando un solo algoritmo che valuti la posizione, in alcuni casi, non si raggiunge la necessaria profondità e può capitare che si arrivi a una valutazione non corretta. Spesso capita nel caso delle ‘fortezze’, come re e regina contro re, torre e pedone, dove un motore può dare un vantaggio che in realtà non c’è”.

La forza del reinforcement learning

È “uno strumento molto potente perché permette di creare delle intelligenze artificiali che sono in grado di prendere delle decisioni anche in ambienti che sono sconosciuti o solo parzialmente osservabili”, sottolinea il direttore italiano di Chess.com. “Lo si osserva bene proprio negli scacchi. Non possiamo istruire un motore dicendogli di fare la mossa migliore perché non sappiamo quale sia la mossa migliore. Però possiamo dirgli ‘gioca con te stesso innumerevoli volte’ e trai le conseguenze usando il punteggio finale delle partite come base per la tua ricompensa. Questo approccio rende gli scacchi molto utili, come banco di prova per altri esperimenti, perché hai una ricompensa molto evidente, facile. Il sistema di ricompense nell’istruzione di un’auto a guida autonoma sarà molto più complesso”.

L’esempio più facile per capire questo processo però è il famoso robottino che pulisce casa. “Vengono pre-addestrati in modo da evitare che girino a caso o su sé stessi ma quando si trovano in un ambiente nuovo, come la casa delle persone che li ha acquistati, riescono rapidamente a fasi un’idea di quanto è grande l’ambiente. Questa è la forza del reinforcement learning. Creare delle macchine che possono essere addestrate in ambienti controllati ma che si adattino molto bene quanto vengono usati in ambienti nuovi”.

I limiti del reinforcement learning’

Per Vitale c’è un altro elemento da considerare quando si parla di questi sistemi. “Dobbiamo tener presente che possono essere declinati nel settore specifico. L’obiettivo delle aziende di intelligenza artificiale è quello di creare degli algoritmi di reinforcement learning che siano in grado di risolvere un numero sempre maggiore di problemi contemporaneamente. E si applica per tutti i giochi a due come Shogi, Scacchi e Go. Le nuove versioni di Stockfish, ad esempio, dopo il 2017, includono anche le reti neurali. Gli scacchisti però cercano di ottimizzare quella che è la performance generale sul loro stile di gioco specifico e utilizzano perciò altre strategie di allenamento, come inserire il libro delle aperture e il database dei finali. Ed è fondamentale visto che AlphaZero, nella sua versione chiamata LeelaChess, a differenza di Stockfish, non gioca in maniera perfetta i finali”.

Lo si capisce osservando con attenzione i match del campionato dei motori su Chess.com. “C’è una partita in cui Stockfish perde contro LeelaChess dopo essersi intrappolato la Torre, un’idea profonda da vedere anche per una macchina che se ne accorge quando ormai è troppo tardi. Ma il punto interessante è che LeelaChess Zero non vince nel modo più pulito e lineare. Arriva in una posizione in cui ha schiacciato l’avversario ma, invece di dare subito scacco matto, decide di sacrificare dei pedoni perché tanto sa di aver comunque vinto la partita”.

La squadra di Zahavy si è accorta che il ‘reinforcement learning’, per quanto efficace, non porti a una comprensione generale del gioco. Ed è per questo che i problemi complicati come quelli di Penrose possono ancora rappresentare una sorta di punto cieco, un ostacolo in grado di mettere in difficoltà realtà avanzatissime come AlphaZero. Il motore, insomma, può entrare in crisi nell’affrontare un problema che non ha mai visto prima e di cui non ha esperienza pregressa.

Ed è proprio qui che entrano in gioco il fattore creatività e “l’importanza di fallire”. Secondo Zahavy i sistemi che usano il deep reinforcement learning non sanno riconoscere il concetto di fallimento, basilare nell’approccio umano nella risoluzione di un problema. L’essere umano, infatti, se capisce che una strada è sbagliata o fallimentare, tenterà di imboccarne un’altra.

Di contro, un sistema di intelligenza artificiale che non riconosce di aver completato il compito per cui è stato addestrato potrebbe incaponirsi nel seguire la stessa medesima strada, continuando a fare quello che ha sempre fatto, perseguendo strategie infruttuose e ritrovandosi sempre davanti al solito muro. Come nel caso dei problemi di Penrose. E questo accade perché un motore considera le sue scelte come passi ideali verso un obiettivo più grande. Obiettivo che in taluni casi non può raggiungere senza provare qualcosa di nuovo.

Il  ‘brainstorming’ delle intelligenze artificiali

“La creatività è una qualità umana”, sostiene Kasparov in ‘Deep Thinking’, il suo libro di analisi delle partite giocate contro DeepBlue. Ed è proprio questa la direttrice che Zahavy ha deciso di seguire: la creatività nasce spesso da attività di brainstorming che esula dai normali approcci che un’intelligenza solitaria adotta. Questo può valere anche per le intelligenze artificiali legate ai motori scacchistici, abituati a concentrarsi sul vincere partite intere, dall’inizio alla fine, attingendo alla propria esperienza pregressa.

The ultimate 6th game of #DeepBlue#Kasparov rematch in 1997 was played on May 11.
The score was even before this game, and it took the Machine 19 moves in the Caro-Kann to mark the revolution in chess making engines officially stronger than human. #computertechnology #Chess pic.twitter.com/UCNfIv7euP

— International Chess Federation (@FIDE_chess)
May 11, 2019

Un approccio che, si è visto, non è così efficace nell’affrontare singoli problemi di una certa complessità e privi di un contesto più ampio. Il ricercatore israeliano ha così immaginato un’intelligenza artificiale in grado di risolvere i puzzle grazie a un maggiore spazio creativo in cui è possibile fare brainstorming e accedere a nuove forme di apprendimento.

Il team di DeepMind ha così raccolto una serie di 53 puzzle di Penrose e 15 altri puzzle di particolare difficoltà. AlphaZero (‘versione classica’) ha risolto meno del 4% dei primi e meno del 12% dei restanti, ma i ricercatori non sono rimasti troppo sorpresi visto che si trattava di esercizi progettati per confondere i computer. Il numero di problemi risolti è nettamente migliorato nel momento in cui il motore è stato addestrato a giocare, contro sé stesso, un’intera partita partendo da ogni singolo puzzle come posizione iniziale: 96% di enigmi di Penrose e 76% dei secondi.

Basandosi su questi dati, la squadra guidata da Zahavy ha costruito un’intelligenza artificiale che avesse accesso a tutte le versioni di AlphaZero, addestrate indipendentemente a risolvere tutte quelle posizioni. L’algoritmo destinato a governare l’intero sistema capisce, di volta in volta, quale intelligenza ha le migliori possibilità di successo facendo la scelta migliore tra gli strumenti a disposizione e agendo come se si trattasse di una decisione condivisa. All’interno del codice di questo algoritmo è prevista anche una particolare ‘ricompensa’ che viene erogata ogni volta che la strategia prescelta viene estratta da una vasta gamma di possibilità.

L’osservazione dei comportamenti di AlphaZero (diversified version) ha portato anche alla scoperta di altri fenomeni interessanti: la sperimentazione di aperture scacchistiche poco note e di specifiche scelte strategiche come la decisione di quando e dove arroccare. Con l’accesso a un numero sempre maggiore opzioni, spiega Zahavy, il nuovo AlphaZero ha più opzioni a disposizione nel momento in cui si trova davanti a situazioni complicate. Un’opportunità che potrebbe trovare applicazioni in moltissimi campi e far fare un salto di qualità non solo nella comprensione del gioco degli scacchi, ma anche del nostro futuro.

Gli scacchi saranno risolti?

“Siamo ancora ben lontani da risolvere il gioco degli scacchi. I tornei tra i motori ci dimostrano che ancora è possibile vincere. Sono un gioco ancora così ricco che permette di fare errori, anche da parte di intelligenze che hanno un punteggio Elo molto più alto del nostro”, spiega ancora Vitale.

E i puzzle, come quelli di Penrose, continuano ad avere un ruolo chiave in questo senso. “È interessante il fatto che gli umani cerchino costantemente di creare posizione che siano anti-motore, dove le scelte sembrano infinite per un motore. Da questo punto di vista il nostro margine è quello di poter vedere delle idee profonde che vanno oltre l’analisi concreta delle sequenze di mosse date da una certa posizione”. La creatività, insomma, la dote amata da Kasparov che ancora distingue, per ora, gli scacchisti dalle intelligenze artificiali.

AGI – Secondo un nuovo studio incentrato sulla forza lavoro britannica e americana, l’intelligenza artificiale potrebbe consentire a milioni di lavoratori di passare alla settimana lavorativa di quattro giorni entro il 2033. Il rapporto del Think tank Autonomy ha rilevato che gli incrementi di produttività previsti dall’introduzione dell’intelligenza artificiale potrebbero ridurre la settimana lavorativa da 40 a 32 ore per il 28% della forza lavoro, 8,8 milioni di persone in Gran Bretagna e 35 milioni negli Stati Uniti, mantenendo al contempo retribuzioni e prestazioni.

Secondo lo studio, questo obiettivo potrebbe essere raggiunto introducendo modelli linguistici di grandi dimensioni, come ChatGPT, nei luoghi di lavoro per implementare l’attività e creare più tempo libero. Secondo Autonomy, una politica di questo tipo potrebbe anche contribuire a evitare la disoccupazione di massa e a ridurre le malattie mentali e fisiche diffuse.

“In genere gli studi sull’IA, sui grandi modelli linguistici e così via, si concentrano esclusivamente sulla redditività o sull’apocalisse occupazionale, questa analisi cerca di dimostrare che quando la tecnologia viene impiegata al massimo delle sue potenzialità e rivolta ad uno scopo preciso, può non solo migliorare le pratiche lavorative, ma anche l’equilibrio tra lavoro e vita privata”, ha dichiarato Will Stronge, direttore della ricerca di Autonomy.

La ricerca ha rilevato che 28 milioni di lavoratori, ovvero l’88% della forza lavoro della Gran Bretagna, potrebbero veder ridotto il proprio orario di lavoro di almeno il 10% grazie all’introduzione degli LLM. Le autorità locali di City of London, Elmbridge e Wokingham sono tra quelle che, secondo il Think tank Autonomy, presentano il potenziale più elevato per i lavoratori, con il 38% o più della forza lavoro in grado di ridurre il proprio orario nel prossimo decennio.

Uno studio simile condotto negli Stati Uniti, sempre da Autonomy, ha rilevato che 35 milioni di lavoratori americani potrebbero passare a una settimana di quattro giorni nello stesso arco di tempo. E’ emerso che 128 milioni di lavoratori, pari al 71% della forza lavoro, potrebbero ridurre il proprio orario di lavoro di almeno il 10%. In Stati come il Massachusetts, lo Utah e Washington è stato riscontrato che un quarto o più della loro forza lavoro potrebbe passare a una settimana di quattro giorni grazie alle LLM.

“La nostra forza lavoro sta subendo cambiamenti sostanziali dovuti all’intelligenza artificiale e all’automazione; pertanto, sarà necessaria un’azione governativa per garantire che i guadagni di efficienza siano percepiti da tutti i lavoratori, indipendentemente dal settore o dal livello di competenza”, ha affermato Mark Takano, il deputato che ha presentato al Congresso degli Stati Uniti una proposta di legge sulla settimana lavorativa di 32 ore.

Nel Regno Unito e negli Stati Uniti, lo studio condotto da Autonomy ha l’intento di suggerire ai datori di lavoro del settore pubblico e privato di sfruttare la significativa opportunità di diventare leader mondiali nell’adozione dell’IA sul posto di lavoro e a considerarla come un’opportunità per migliorare la vita di centinaia di milioni di lavoratori.

Il documento invita, inoltre, i responsabili politici ad agire in tale direzione. “Penso che sarebbe davvero impressionante la costruzione di una solida strategia industriale basata sull’IA, con centri di automazione in cui i sindacati, l’industria e gli esperti di questa tecnologia si riuniscano per aumentare la produttività; il che comporterebbe anche conseguenti miglioramenti per i lavoratori”, ha sottolineato Stronge. 

AGI – Ridurre i consumi energetici grazie a un feedback energetico personalizzato “emozionale” (“emotional energy-alert“). Una faccina rossa in segno di disapprovazione, che indica un eccessivo utilizzo di energia elettrica, può convincere consumatori e consumatrici ad avere comportamenti più virtuosi e sostenibili. La conferma arriva da una ricerca svolta al Laboratorio di Neuroscienze del Consumatore (NCLab) del Dipartimento di Economia e Management dell’Università di Trento.

L’inflazione dei prezzi dell’energia, e il caro vita in generale, spingono a rivedere le abitudini di consumo. Secondo l’ultimo rapporto del Censis, “Italiani e sostenibilità: tra sobrietà, transizione energetica e benessere”, nel 2023 in Italia il 71,5% della popolazione ha ridotto i consumi di illuminazione e riscaldamento a causa dell’aumento dei prezzi. Il progetto dell’Università trentina va in questa direzione: convincere le persone ad adottare un atteggiamento più sobrio ma anche più consapevole, attraverso una comunicazione immediata, “parlante”, dei propri consumi energetici.

Per farlo è stata utilizzata una metodologia sperimentale e neuroscientifica per l’analisi delle emozioni. In particolare, sono state confrontate le reazioni comportamentali e fisiologiche dell’utente di fronte a diversi tipi di feedback energetici. Nella condizione di controllo, come nella bolletta standard, al consumatore venivano comunicati il consumo e il costo. Nella condizione sperimentale (“emotional energy-alert”), invece, il feedback ricevuto sul telefonino riportava gli stessi dati con l’aggiunta di una faccina scontenta per l’eccessivo consumo.

Ma non solo. Veniva inserita un’informazione in più: il consumo di energia del vicino di casa, per confrontare comportamenti, spese e risparmi. La ricerca si intitola “Emozioni per un consumo energetico sostenibile: un’indagine psicofisiologica”. È stata realizzata grazie a una convenzione tra l’Ateneo di Trento e il Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti (Cncu) e i risultati sono stati presentati a Genova nel corso della XXI edizione della sessione programmatica Cncu-Regioni, promossa dal Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti.

“L’idea dalla quale siamo partiti – spiega Nicolao Bonini, responsabile del laboratorio di Neuroscienze del Consumatore (NCLab) e referente del progetto che è stato svolto grazie anche alla collaborazione di Alessia Dorigoni, assegnista di ricerca – era capire se il modo diverso con cui comunichiamo l’eccessivo consumo può avere un impatto sulla volontà del consumatore di ridurre i consumi. La risposta è sì e lo abbiamo dimostrato sperimentalmente”. L’approccio utilizzato per la ricerca è di tipo comportamentale, basato sulle strategie di nudging: una metodologia che non prevede incentivi, premi economici o punizioni, ma impiega tecniche psicologiche per raggiungere l’obiettivo, in questo caso la riduzione dei consumi energetici. Una spinta “gentile” che induce le persone a scegliere determinate opzioni e non altre, senza che queste ultime sentano di essere costrette a farlo.

“Nel progetto – sottolinea Bonini – sono due gli elementi che giocano un ruolo importante. Sul cellulare arriva il messaggio che l’utente ha consumato un dieci per cento in più rispetto al vicino di casa. Questa è una novità rispetto alla bolletta tradizionale che di solito riporta i consumi in kilowattora e i costi. Aggiungere questo elemento di paragone con un referente sociale, il vicino di casa appunto, aumenta di circa tre volte la probabilità che il consumatore decida di ridurre il consumo elettrico. Oltre a ciò, la faccina rossa, arrabbiata perché si è stati spreconi, aumenta di un tre per cento la quantità di tale riduzione”.

Nel progetto sono stati coinvolti 300 consumatori trentini. L’indagine si è svolta nel laboratorio di Neuroscienze del Consumatore (NCLab). Al suo interno una sofisticata strumentazione che misura dati fisiologici per analizzare i meccanismi neuro-psicologici che spingono alla scelta economica del consumo. Un intreccio tra psicologia ed economia. “Ciascuno dei consumatori coinvolti – evidenzia Bonini – è stato testato nel laboratorio dove abbiamo simulato la ricezione del messaggio sul proprio cellulare. Abbiamo misurato la sudorazione emozionale, l’espressione facciale e i movimenti oculari, cioè reazioni non controllabili. Per quanto riguarda la sudorazione emerge un dato coerente: quando le persone sono esposte al feedback emozionale con faccina e riferimento sociale ‘vicino di casa’, sudano di più rispetto alla situazione di controllo e indicano una maggiore emozionalità negativa. I nostri macchinari consentono di misurare dove il consumatore guarda, per quanto tempo, con che dilatazione pupillare, la sudorazione, i cambiamenti del ritmo cardiaco. Tutti questi indici psicofisiologici permettono di misurare l’emozionalità in maniera diretta. In questo modo integriamo dati verbali consapevoli con altri inconsapevoli”.

Un progetto di questo tipo potrebbe aprire a nuove politiche di marketing e di consumo. “Se la politica – riflette il docente – incentivasse i fornitori di energia elettrica a utilizzare questi sistemi che si chiamano ‘programmi comportamentali per il contenimento dell’energia’, ampiamente utilizzati all’estero, otterremmo gli stessi risultati di quelli a livello internazionale. L’uso di queste tecniche garantisce una riduzione di kilowattora consumati del 2,5 per cento”.

AGI – In uno studio dell’Università di Eotvos Lorànd, ricercatori del Dipartimento di Etologia hanno esaminato come i cani interpretano i gesti umani, confrontandoli con i bambini. La scoperta? I cani “più intelligenti” sembrano prestare attenzione non solo alla posizione di un oggetto, ma anche al suo aspetto, suggerendo una somiglianza nell’elaborazione delle informazioni con gli esseri umani. Il fenomeno, noto come “bias spaziale”, riguarda l’interpretazione delle informazioni in relazione allo spazio.

Ad esempio, quando mostriamo a bambini e cani la posizione di un oggetto, i bambini interpretano il gesto come un indicatore dell’oggetto, mentre i cani lo prendono come una direzione. Questa differenza, ora approfondita da uno studio specifico, sembra non essere solo una questione di visione, ma riflette il modo in cui i cani pensano. I ricercatori hanno testato 82 cani in compiti comportamentali, valutando il tempo impiegato per apprendere la posizione di una ricompensa rispetto alle caratteristiche di un oggetto.

La ricerca ha rivelato che i cani “più intelligenti” imparano più velocemente, suggerendo una connessione tra le loro abilità cognitive e la capacità di interpretare le informazioni in modo più dettagliato. Per comprendere se il “bias spaziale” è legato a una questione sensoriale o cognitiva, i ricercatori hanno misurato la lunghezza della testa dei cani, correlata all’acuità visiva, e li hanno sottoposti a test cognitivi.

I risultati hanno dimostrato che i cani con migliori abilità visive e cognitive hanno mostrato un “bias spaziale” più ridotto. In conclusione, questo studio getta luce sulla mente dei nostri amici a quattro zampe, suggerendo che la loro capacità di interpretare le informazioni va oltre la semplice visione, portando a nuove prospettive sulla comprensione del modo in cui i cani pensano.

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